Con un annuncio tutt’altro che gradito all’amministrazione Trump, i vertici della General Motors hanno presentato lunedì un pesantissimo piano di tagli alla produzione e di personale che prospetta un nuovo doloroso processo di ristrutturazione del settore automobilistico, probabilmente non limitato al continente americano.

 

Ancora una volta, il mantenimento di livelli accettabili di “profitto a lungo termine” e del “potenziale nella creazione di denaro”, come ha spiegato l’amministratore delegato della compagnia Mary Barra, avverranno a spese dei dipendenti. E ciò nonostante la GM abbia fatto segnare un aumento degli utili di quasi il 40% nel terzo trimestre del 2018 e da oltre un anno spenda svariati miliardi di dollari in dividendi e riacquisto di proprie azioni.

 

 

Secondo alcune stime, finora il gigante dell’auto di Detroit ha anche risparmiato più di 500 milioni di dollari grazie alla “riforma” fiscale voluta lo scorso anno dalla Casa Bianca e che prevede generosissimi tagli alle tasse per le corporation e i redditi più alti. Proprio quest’ultimo fatto ha messo in imbarazzo i sostenitori del piano fiscale di Trump al Congresso, così come lo stesso presidente, le cui menzogne sull’impulso agli investimenti e all’occupazione, che avrebbe dovuto innescare il taglio alle tasse, sono emerse clamorosamente con la notizia sul piano della GM.

 

Trump si ritrova inoltre a dover giustificare la chiusura di importanti fabbriche e una massiccia perdita di posti di lavoro dopo avere promesso e, in seguito, ostentato il ritorno e il consolidamento delle attività manifatturiere, prima fra tutte quella dell’auto, nel cuore del devastato Midwest americano e nel resto del paese.

 

Come ha ricordato lunedì un articolo di Bloomberg News, in un comizio del 2017 a Youngstown, nell’Ohio, Trump disse che “dopo anni e anni durante i quali posti di lavoro e ricchezza si sono spostati all’estero, finalmente abbiamo ottenuto risultati per i nostri lavoratori e le nostre aziende”. Dei tre impianti che General Motors intende chiudere nel 2019, uno è situato proprio a pochissima distanza da questa città dell’Ohio, nella località di Lordstown, dove 1.600 lavoratori assemblano il modello Chevrolet Cruze.

 

Gli altri due stabilimenti destinati a cessare la produzione sono quelli di Detroit-Hamtramck, nel Michigan, con 1.500 dipendenti e quello canadese di Oshawa, vicino a Toronto, che dà lavoro a 2.500 persone. A questi vanno aggiunte altre due fabbriche che realizzano componenti per auto con un totale di 645 lavoratori e situate a Warren, un sobborgo di Detroit, e a White Marsh, nel Maryland. Altri due impianti non ancora identificati saranno infine chiusi al di fuori del Nordamerica. Il totale dei posti di lavoro persi sarà di 14.700 nel quadro di un piano di riduzione dei costi pari a 6,5 miliardi di dollari entro il 2020.

 

I media americani hanno spiegato che la decisione di GM è dovuta al rallentamento delle vendite di veicoli e alla preferenza degli automobilisti d’oltreoceano per modelli più grandi, come SUV e pickup, in concomitanza con il persistere di prezzi relativamente bassi dei carburanti.

 

Questi fattori e le pressioni degli investitori, a cominciare dalle banche di Wall Street, hanno convinto i vertici di GM a muoversi per primi, così da continuare a garantire la realizzazione di profitti, anticipando condizioni di mercato in evoluzione e le azioni dei propri concorrenti. In realtà, qualche mese fa Ford aveva già annunciato lo stop alla produzione dei modelli più piccoli e un taglio di personale in Nordamerica, ma il piano appena presentato da General Motors appare di gran lunga più consistente.

 

La “CEO” Mary Barra ha incontrato i giornalisti nella giornata di lunedì, ammettendo che la decisione presa non dipende da una situazione di crisi, ma si sarebbe resa necessaria per “anticipare scenari di mercato in trasformazione”, malgrado “la compagnia e l’economia [USA] risultino sane”. La stessa manager ha poi aggiunto che alcuni impianti interessati dal piano di ristrutturazione potrebbero riprendere a operare in funzione del risultato delle trattative con il sindacato (UAW) per il rinnovo del contratto dei lavoratori, in scadenza proprio nel 2019.

 

Questo riferimento chiarisce come i vertici di GM intendano ancora una volta entrare nei negoziati agitando la minaccia della chiusura delle fabbriche e di licenziamenti di massa per ottenere altre concessioni dai lavoratori.

 

A questo scopo risulterà nuovamente fondamentale il ruolo del sindacato, su cui pesa parte della responsabilità del costante declino delle condizioni di lavoro e di retribuzione dei dipendenti dell’industria automobilistica americana a partire dalla ristrutturazione di GM e Chrysler seguita al fallimento pilotato dall’amministrazione Obama nel 2009.

 

Alla notizia del piano di General Motors, in ogni caso, la borsa di Wall Street ha reagito con euforia. Il titolo della compagnia di Detroit è salito infatti di circa il 5% lunedì, mettendo da parte almeno momentaneamente i timori legati ai contraccolpi della guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca che avevano portato di recente a previsioni cupe per i futuri profitti di GM.

 

Per i lavoratori minacciati di licenziamento e le loro famiglie, al contrario, la notizia dei tagli è arrivata come una doccia fredda. I sindacati, l’azienda e lo stesso presidente Trump avevano più volte promesso che, dopo i sacrifici richiesti, gli impianti sarebbero rimasti aperti a lungo. Il sindacato UAW, in particolare, nel 2015 aveva cercato di far approvare in tutti i modi il nuovo contratto di lavoro negoziato con GM, nonostante l’opposizione degli iscritti e le nuove pesanti concessioni, puntando sulla promessa che il lavoro sarebbe rimasto negli Stati Uniti.

 

Questo nuovo tradimento dei lavoratori mette perciò i vertici dei sindacati in una posizione scomoda e renderà difficile il loro compito di contenere le tensioni e la rabbia degli iscritti. Già lunedì, i dipendenti della fabbrica di Oshawa, in Canada, hanno improvvisato una protesta contro i dirigenti di General Motors, mentre alcuni rappresentanti sindacali sono stati costretti a denunciare la decisione dell’azienda e a promettere azioni in previsione delle trattative per il rinnovo del contratto nei prossimi mesi.

 

La chiusura degli impianti minacciata da GM si abbatterà su comunità già profondamente segnate da decenni di deindustrializzazione e dalla ristrutturazione del mercato del lavoro. Il tanto propagandato ritorno della produzione manifatturiera nel Midwest americano ha creato quasi 350 mila posti a partire dall’uscita dalla “grande recessione” del 2008-2009. Questi numeri sono però lontanissimi da quelli pre-crisi, per non parlare dei decenni precedenti.

 

Non solo, grazie soprattutto alle condizioni imposte da Obama per “salvare” l’industria dell’auto dalla bancarotta, la gran parte dei posti di lavoro creati negli ultimi anni risultano essere precari e pagati anche la metà rispetto a quelli dei dipendenti più anziani. In generale, perciò, i livelli di povertà nelle regioni dell’industria automobilistica americana restano a livelli spesso drammatici e costantemente al di sopra della media del paese.

 

Per quanto riguarda invece Trump, la sua reazione alla notizia del piano della General Motors è stata di impazienza nei confronti dei vertici della compagnia di Detroit. Il presidente americano ha detto di avere parlato con la numero uno dell’azienda, la quale, a suo dire, avrebbe ipotizzato per gli impianti minacciati di chiusura una futura ripresa della produzione con modelli di auto più remunerativi.

 

Martedì, Trump è nuovamente intervenuto sulla vicenda per minacciare di sospendere i “sussidi” federali destinati a GM, probabilmente relativi alla costruzione di auto elettriche. Dopo l’impennata di lunedì, il suo intervento ha fatto crollare del 3% le azioni della compagnia.

 

La possibile scomparsa di migliaia di posti di lavoro da GM e l’effetto domino che questa decisione rischia di innescare nell’industria dell’auto negli Stati Uniti rappresentano una seria minaccia per la già esilissima credibilità politica di Donald Trump. Proprio in stati come Ohio e Michigan, quest’ultimo aveva costruito la sorprendente vittoria elettorale del 2016, beneficiando di una campagna all’insegna del populismo e delle promesse di rilancio dell’economia dopo decenni segnati dalla profonda crisi del capitalismo americano e dalle politiche rovinose per la “working-class” promosse dalle precedenti amministrazioni.

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