Dopo mesi di minacce e intimidazioni, l’amministrazione Trump ha ottenuto in questi giorni un apparente successo nell’implementazione della propria politica commerciale con il rimodellamento del Trattato di Libero Scambio Nordamericano (NAFTA) del 1994. Il nuovo trattato è stato ribattezzato USMCA (“Accordo USA-Messico-Canada”) ed è stato sottoscritto dopo che i governi di Ottawa e Città del Messico hanno dovuto accettare una serie di concessioni richieste da Washington, anche se i vantaggi che ne potrebbero derivare per l’economia americana saranno tutti da verificare.

 

I negoziati per la riscrittura del NAFTA, voluta da Trump, erano iniziati oltre un anno fa e avevano incontrato da subito svariati ostacoli. Nelle ultime fasi, i colloqui avevano assunto un contorno quasi drammatico, accentuato dalla scadenza del 30 settembre auto-imposta dal governo americano. Per legge, il testo del nuovo trattato deve essere disponibile pubblicamente almeno per 60 giorni prima che il presidente possa firmarlo in maniera ufficiale e che venga poi ratificato dal Congresso.

 

La Casa Bianca voleva chiudere perciò questa prima fase dell’iter entro il 30 novembre, ultimo giorno del mandato del presidente messicano Enrique Peña Nieto, a cui succederà dal primo dicembre il progressista Andrés Manuel López Obrador, le cui inclinazioni rispetto al trattato non sono del tutto confortanti per Washington.

 

Gli Stati Uniti e il Messico avevano comunque raggiunto un’intesa bilaterale già nel mese di agosto e per alcune settimane Trump aveva minacciato di escludere il Canada, il cui governo era sembrato passare alternativamente dalla linea dura alla disponibilità a trattare. Alla fine, Ottawa ha sottoposto una propria proposta di accordo alla Casa Bianca, da dove è subito partita una controproposta su cui tutti e tre i paesi hanno deciso di convergere definitivamente.

 

A convincere il gabinetto del primo ministro Justin Trudeau a firmare il USMCA sono state in primo luogo le pressioni e le ansie del business canadese che rischiava di essere tagliato fuori dalle agevolazioni dell’area di libero scambio nordamericana finora offerte dal NAFTA. Inoltre, la minaccia dell’amministrazione Trump di imporre dazi pari al 25% sulle importazioni di automobili prodotte in Canada ha avuto un qualche effetto, tanto più dopo l’applicazione già effettiva delle tariffe doganali su acciaio e alluminio canadesi.

 

Questi ultimi dazi non sono stati in ogni caso aboliti con la firma del nuovo trattato. Quelli sulle auto sono stati invece messi da parte, quanto meno finché il numero di veicoli esportati da Canada e Messico non supererà un determinato tetto. Nel USMCA non vi è però alcuna garanzia che gli USA si asterranno da adottare futuri provvedimenti punitivi in altri ambiti e in base alla “sezione 232” della normativa commerciale americana, che fa cioè riferimento alle necessità della “sicurezza nazionale”.

 

Il Canada ha anche dovuto acconsentire ad aprire il proprio settore caseario, tradizionalmente tra i più protetti, all’export americano, così come sarà estesa la durata dei brevetti dei medicinali delle compagnie farmaceutiche statunitensi venduti oltre i confini settentrionali. Un altro punto su cui il governo di Ottawa ha dovuto cedere è la clausola della revisione e riconferma periodica obbligatoria dell’intero trattato da parte dei tre firmatari, anche se non ogni cinque anni, come inizialmente chiesto da Washington, bensì ogni sedici.

 

Una delle poche condizioni non negoziabili poste dal Canada e finite nell’accordo è invece la conferma del meccanismo già previsto dal NAFTA per la risoluzione dei conflitti commerciali attraverso il giudizio di una commissione indipendente. Gli Stati Uniti volevano l’eliminazione di questa clausola e l’avevano infatti esclusa dall’accordo iniziale di agosto raggiunto con il Messico.

 

Nel trattato post-NAFTA sono state inserite inoltre alcune norme che dovrebbero favorire l’industria automobilistica americana e canadese, come l’aumento della percentuale di parti di un veicolo – dal 62,5 al 75% – realizzate in Nordamerica affinché esso possa essere scambiato senza dazi. Una parte delle componenti di un veicolo, che arriverà al 40% nel 2023, dovrà poi essere prodotta da fabbriche che garantiscono ai loro dipendenti un salario minimo di almeno 16 dollari l’ora, cioè circa il triplo dell’attuale stipendio medio messicano in questo settore.

 

Nel complesso, il nuovo trattato da un lato lascia invariata una parte delle condizioni previste dal NAFTA e dall’altro ne incorpora alcune che facevano parte della cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP), già negoziata da Obama e boicottata da Trump, tra cui l’apertura del mercato caseario canadese. Molti osservatori hanno fatto notare come il USMCA, soprattutto per via delle nuove regolamentazioni in ambito manifatturiero, possa finire per danneggiare la competitività delle aziende nordamericane rispetto a quelle asiatiche, tanto che molte potrebbero spostare altrove le proprie produzioni nel prossimo futuro.

 

Più che il contenuto del nuovo trattato di libero scambio nordamericano, a contare per il momento sembra essere l’elemento simbolico e ancor più le modalità con cui sono stati condotti i negoziati da parte del governo di Washington. Il quadro nel quale è stato mandato in porto il USMCA si è tradotto infatti in un messaggio inequivocabile lanciato ai rivali economici degli Stati Uniti su scala globale.

 

Trattative bilaterali o, al massimo, trilaterali, imposizione di dazi, escalation di guerre commerciali sono le modalità preferite dalla Casa Bianca per esercitare pressioni sugli altri paesi e conquistare nuove quote di mercato per il capitalismo americano attraverso la firma di nuovi trattati anche al di fuori dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Una condotta simile permette almeno in teoria di massimizzare il peso dell’economia, ma anche della macchina militare, americana, relativamente diluita invece in un quadro multilaterale o in organismi internazionali.

 

Che il raggiungimento dell’accordo con Canada e Messico vada inserito in un quadro più ampio è confermato dalle parole dello stesso Trump nel corso della conferenza stampa tenuta per presentare il nuovo trattato. Il presidente americano ha fatto cioè riferimento ad altri paesi con cui gli USA stanno trattando o intendono trattare nuove condizioni commerciali, agitando puntualmente minacce di dazi e sanzioni.

 

Proprio settimana scorsa, ad esempio, l’amministrazione Trump ha concordato una serie di modifiche al trattato di libero scambio con la Corea del Sud, in vigore dal 2012, dopo che erano state ipotizzate tariffe doganali sulle importazioni di automobili da Seoul. Con lo stesso metodo, il governo giapponese sembra essere stato convinto in questi giorni ad aprire i negoziati per un possibile trattato bilaterale con gli Stati Uniti, mentre nei confronti dell’Europa, Trump è tornato a promettere misure punitive sull’export automobilistico se non ci saranno concessioni in preparazione dei colloqui per un possibile accordo commerciale.

 

L’obiettivo primario per Washington resta tuttavia la Cina, finora di gran lunga il paese più colpito dalle iniziative della Casa Bianca e di fatto nel pieno di una crescente guerra commerciale con la prima potenza economica del pianeta. Questa priorità è dimostrata anche da uno degli allegati al USMCA, quello cioè che assegna agli Stati Uniti la facoltà di bloccare un eventuale trattato di libero scambio bilaterale tra Canada o Messico e una “economia non di mercato”, con evidente riferimento alla Cina. Questa procedura verrebbe attuata attraverso l’esclusione dal USMCA di uno dei firmatari che intendesse sottoscrivere un trattato con un paese come la Cina, trasformando così il successore del NAFTA in un accordo bilaterale.

 

La clausola peserà in maniera probabilmente decisiva soprattutto sulle politiche commerciali canadesi. Infatti, dalla fine del 2016 Pechino e Ottawa avevano avviato discussioni preliminari per negoziare un trattato bilaterale di libero scambio. Malgrado le resistenze, l’ipotesi era sembrata decollare dopo la visita del premier Trudeau in Cina nel dicembre dello scorso anno e in seguito alle tensioni internazionali provocate dall’agenda commerciale dell’amministrazione Trump.

 

Il recentissimo accordo sul “NAFTA 2.0” e le condizioni in esso contenute allontanano invece quasi di certo la possibilità di un’intesa di questo genere, vista l’importanza ancora fondamentale del mercato nordamericano per il capitalismo canadese.

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