Le sanzioni economiche contro l’Iran, riapplicate dall’amministrazione Trump dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare del 2015, mercoledì sono state giudicate illegali anche dal più alto tribunale internazionale. La Corte Internazione di Giustizia delle Nazioni Unite ha emesso un verdetto “ad interim” in un caso scaturito da una denuncia presentata da Teheran, ordinando a Washington di sospendere alcune delle misure punitive tornate recentemente in vigore.

 

Anche se la sentenza è vincolante e non prevede appelli, il Tribunale con sede a L’Aia non ha alcuno strumento per farla rispettare. Gli USA, inoltre, non hanno mai riconosciuto questo organo di giustizia internazionale. Recentemente, il consigliere della Casa Bianca per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, aveva addirittura minacciato sanzioni e misure detentive nei confronti dei giudici della Corte che avessero aperto procedimenti penali contro cittadini americani.

 

 

Per il Tribunale di Giustizia, il governo di Washington sarebbe tenuto a sospendere le sanzioni che ostacolano la libera esportazione verso l’Iran di “medicinali e dispositivi medici, beni alimentari e agricoli, componenti aeronautici”. I giudici hanno deliberato all’unanimità, concentrandosi sugli aspetti umanitari, oltre che su quelli della sicurezza dei voli civili.

 

Queste sanzioni erano state annunciate dopo che l’8 maggio scorso Trump aveva deciso l’abbandono dell’accordo sul nucleare di Vienna (JCPOA). Le misure erano diventate effettive ad agosto, mentre ai primi di novembre torneranno a essere applicate anche le sanzioni dirette contro l’industria petrolifera iraniana.

 

La decisione dell’amministrazione Trump sull’Iran era palesemente arbitraria soprattutto perché andava contro un trattato sottoscritto anche da altri cinque paesi (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania), tutti su posizioni opposte a quella americana. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha poi sempre certificato il rispetto dei termini del JCPOA da parte di Teheran.

 

La sentenza di mercoledì è comunque di natura provvisoria, in attesa che la Corte Internazionale si esprima in maniera definitiva sul caso presentato dall’Iran. Questo processo potrebbe durare anni, ma la decisione di ordinare la sospensione delle sanzioni in attesa dell’esito finale conferma la validità delle argomentazioni dei legali della Repubblica Islamica.

 

Questi ultimi avrebbero tuttavia preferito un giudizio che includeva tutte le sanzioni finora reimposte da Washington, anche se altre vicende legali risultano aperte tra i due paesi. Ad esempio, la prossima settimana il Tribunale de L’Aia dovrebbe inaugurare le udienze relative a una denuncia di Teheran del 2016 contro il governo USA. Questo caso riguarda il congelamento di beni iraniani all’estero per due miliardi di dollari in seguito alle sanzioni finanziarie adottate in precedenza per il programma nucleare.

 

Il caso su cui si è espressa mercoledì la Corte di Giustizia si basava invece su un precedente insolito, ovvero un oscuro “Trattato di Amicizia” sottoscritto in funzione anti-sovietica dagli Stati Uniti e l’Iran pre-rivoluzionario nel 1955, con il quale i due paesi concordavano nell’incoraggiare “commerci e investimenti reciprocamente benefici” e nel mantenere “stretti rapporti economici”. Per tutta risposta, sempre mercoledì il dipartimento di Stato americano ha annunciato il ritiro degli USA anche da questo trattato.

 

Per il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, il verdetto è “un altro fallimento di un paese [gli USA] con dipendenza da sanzioni” e “una vittoria del diritto”. Il governo americano aveva al contrario criticato duramente l’intero procedimento, sostenendo già durante le udienze che la Corte di Giustizia non aveva giurisdizione sul caso delle sanzioni all’Iran, in quanto esso riguardava questioni legate alla sicurezza nazionale americana.

 

Questa posizione è significativa dell’atteggiamento di Washington nella conduzione dei propri affari internazionali, non solo nei confronti dell’Iran. Qualsiasi iniziativa intrapresa o crimine commesso dagli Stati Uniti è stato giustificato negli ultimi decenni con le esigenze della propria sicurezza nazionale, tanto da mettere, in definitiva, la prima potenza del pianeta al di sopra della legge e del diritto internazionale.

 

Per “sicurezza nazionale”, poi, è da intendersi in realtà la difesa o la promozione degli interessi economici e strategici della classe dirigente americana. Nel caso dell’Iran, ciò ha a che fare, da un lato, con il controllo del Medio Oriente e delle risorse petrolifere della regione e, dall’altro, con i processi di integrazione euroasiatica in atto, osteggiati dagli USA, all’interno dei quali Teheran svolge un ruolo cruciale.

 

Le ragioni dell’uscita dal JCPOA da parte di Trump avevano d’altra parte confermato questa realtà. L’aspetto legato all’inesistente programma nucleare militare iraniano aveva lasciato spazio ben presto e anche a livello pubblico ad altre pretese americane, come quella di interrompere lo sviluppo dei missili balistici a scopo difensivo e di abbandonare le legittime aspirazioni da potenza regionale con interventi a sostegno di alleati come il regime siriano o Hezbollah in Libano.

 

A livello pratico, la sentenza di mercoledì del Tribunale internazionale non avrà con ogni probabilità conseguenze, né l’amministrazione Trump sarà influenzata in qualche modo da essa. Tuttavia, la condanna delle sanzioni americane potrebbe dare un ulteriore impulso alle manovre in corso per mantenere in vita l’accordo sul nucleare di Vienna e preservare le relazioni commerciali, soprattutto tra l’Iran e l’Europa, innescate dal JCPOA.

 

In altre parole, il parere della Corte di Giustizia legittima per lo meno il tentativo di Bruxelles di aggirare le sanzioni americane nel tentativo di proteggere le aziende europee che fanno affari o intendono iniziare a farli con la Repubblica Islamica. La questione più delicata è rappresentata dalle cosiddette sanzioni “secondarie” americane, quelle cioè che vanno a colpire le compagnie che intrattengono relazioni con entità iraniane, escludendole dai circuiti finanziari degli Stati Uniti. Per il timore di incorrere in questi provvedimenti, numerose grandi aziende occidentali hanno abbandonato le loro operazioni in Iran negli ultimi mesi.

 

Dichiarando illegali almeno alcune delle sanzioni USA, nella migliore delle ipotesi la Corte de L’Aia potrebbe quindi facilitare l’implementazione del progetto recentemente lanciato da UE e Iran per processare i pagamenti dei loro scambi commerciali al di fuori del sistema bancario SWIFT, di fatto controllato dagli Stati Uniti.

 

L’importanza di quest’ultima iniziativa, anche se ancora lontana dal concretizzarsi, risiede nella possibilità che essa avrebbe le potenzialità per essere allargata a un bacino di paesi più ampio senza limitarsi agli scambi con l’Iran, tanto da rispondere alle esigenze sempre più pressanti a livello globale di svincolarsi dal sistema economico e finanziario dominato da Washington.

 

Per quanto riguarda i governi europei, ad ogni modo, l’approccio alla questione iraniana continua a essere ambivalente e guidato da interessi economici e strategici più che a ragioni di giustizia ed equità nei rapporti internazionali. A confermarlo è la decisione di questa settimana del governo di Parigi di sanzionare esponenti di spicco dell’intelligence iraniana, accusati di avere organizzato uno sventato attacco terroristico in territorio francese.

 

Il tempismo dell’iniziativa dell’Eliseo, annunciata proprio mentre l’opposizione alla Casa Bianca sull’Iran sta trovando sempre più consensi, la dice lunga sull’ambiguità occidentale nelle relazioni con Teheran. Tanto più che prove concrete della responsabilità della Repubblica Islamica non sono state presentate, ma si basano unicamente su quanto afferma il governo francese.

 

Inoltre, il presunto attentato era diretto contro con un’organizzazione screditata – MEK (“Mojahedin-e Khalq”) – irriducibilmente ostile al governo dell’Iran, che in questo paese ha messo in atto attacchi terroristici con l’appoggio di Stati Uniti e Israele e che vanta solide relazioni con gli ambienti “neo-con” americani più estremi, ben rappresentati anche all’interno dell’amministrazione Trump.

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