di Carlo Benedetti

MOSCA. Resta nella memoria (almeno per ora) la sua grande statua dorata. L’aveva fatta costruire nella piazza centrale della capitale, Askhabad, per segnare senza mezzi termini il suo dominio assoluto nella Turkmenia post-sovietica. Perchè Saparmurat Nijazov, presidente a vita di questa repubblica asiatica di 7 milioni di abitanti, si considerava, appunto, immortale. Padre-padrone ed autore di un libro che si apriva con una affermazione epocale: “Solo dopo aver letto le mie pagine avrete aperta la porta verso il paradiso”. Ora non c’è più. Restano anche le sue immagini impresse nei vasetti di yogurt... E’ morto improvvisamente nella notte tra il 20 e il 21 dicembre all’età di 66 anni; con la Turkmenia che si sveglia dal lungo sonno in cui era caduta dal momento in cui (1990) questo ex esponente del Pcus era stato eletto a presidente della nuova realtà nazionale. Si apre ora una nuova pagina nella vita locale con le funzioni ad interim di Capo dello Stato che saranno svolte dal presidente del parlamento (Medglisa) Obezgeldy Kataev. Ma già soffia il vento della successione con vari personaggi che erano stati messi all’indice e che ora guardano al futuro prescindendo dalla situazione reale ed attrezzandosi per governare le eventuali trasformazioni. Il paese (erede delle grandi civiltà dell'Emirato di Bukhara e Samarcanda) è comunque praticamente disastrato. Dal momento del crollo dell’Urss ha fatto sempre registrare i peggiori indicatori sociali, precipitando in una grave crisi. Con anni di sommovimenti che hanno provocato morti, rifugiati e l'emigrazione di 300.000 uomini verso la Russia, in cerca di lavoro. E la conseguente transizione dal modello economico sovietico di scambi improntati all'economia di mercato ha contribuito a minare paurosamente il già fragile tessuto sociale. Perchè tutti i servizi, anche quelli di base, sono ora a pagamento e molto costosi per la popolazione: dai pasti in ospedale alle medicine, dal certificato di nascita (e infatti oltre il 10 % dei neonati non viene registrato) al viaggio per mandare un figlio maschio a lavorare in Russia come emigrato. Da questa catastrofe si salvano solo pochissimi esponenti della nuova nomenklatura del capitalismo selvaggio e cioè quelli che vengono definiti “nuovi tagiki”. Si tratta dei padroni delle coltivazioni di cotone che sono riusciti, grazie ad un sistema di privatizzazione strisciante, a conquistare posizioni di monopolio e ad accaparrarsi, nello stesso tempo, alcune aziende che producono l’alluminio. Notevoli anche le presenze degli oligarchi locali nei settori nell’estrazione del petrolio e del gas. Ma la situazione economica generale è pur sempre tragica.

Ed ora l’agenda nazionale e internazionale è densa di nuovi e gravi problemi che riguardano, soprattutto, le relazioni con le vicine repubbliche turcofone e con la stessa Russia e, più in generale, con quelle parti del mondo occidentale che hanno investito sulla Turkmenia. E in questo quadro non va dimenticato che gli Usa, con il programma Caspian Guard, hanno già elargito al paese circa 50 milioni di dollari.
Ora la politica di Askhabad potrebbe trovare il suo momento di svolta. Vi potrebbe essere un rigurgito nazionalista di stampo islamico. E si verificherebbe così anche un distacco dalla Russia di Putin. Nijazov, invece, aveva puntato molte carte sul rapporto con il Cremino, convinto così di ostacolare l’estremismo dei religiosi e di bloccare le infiltrazioni di talebani afgani. Non a caso si era impegnato nell’organizzazione di una “Associazione dei turkmeni nel mondo” proprio per impedire la formazione di strutture nazionali in chiave strettamente religiosa. Il suo disegno - con i cambiamenti istituzionali che si annunciano - rischia però di saltare. Perchè fra le repubbliche centroasiatiche la Turkmenia era la meno liberale, con una struttura sociale largamente tribale. Di qui lo sviluppo di forze nazionali in aperto dissenso con il presidente che veniva definito, appunto, come lo “Stalin della Turkmenia”. Ma lui si faceva chiamare “Turkmenbashi” e cioè leader dei turkmeni.

Ora bisognerà attendere le prime reazioni nazionali e, soprattutto, vedere come si comporteranno i rappresentanti della diaspora turkmena presenti in varie parti del mondo. Ma, soprattutto, in Russia. A queste forze potrebbe forse giungere l’appoggio di un Putin interessato ad una normalizzazione democratica dell’Asia ex sovietica, anche impedendo agli americani di mettere in atto - e questo potrebbe essere il vero obiettivo dell’inquilino del Cremlino - il loro “grande gioco” volto ad influenzare il percorso di oleodotti e gasdotti.

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