di Michele Paris

Nel fine settimana appena trascorso, il Partito Democratico americano ha scelto come nuovo segretario il candidato dell’establishment ufficiale, appoggiato dal clan Clinton e dalla maggior parte dei membri dell’amministrazione dell’ex presidente Obama. L’elezione di Thomas Perez è stata probabilmente la più combattuta nella storia del Comitato Nazionale Democratico (DNC) e ha confermato sia le tensioni nel partito dopo l’umiliante sconfitta nelle presidenziali di novembre sia l’impossibilità di riformarlo dall’interno in una direzione anche solo vagamente progressista.

Per molti “liberal” americani, il successo relativamente di misura di Perez è stata una sorpresa negativa, viste le aspettative riposte nel suo principale sfidante, il deputato musulmano del Minnesota, Keith Ellison. Quest’ultimo era di fatto collegato al movimento nel Partito Democratico coagulatosi attorno alla candidatura alla presidenza del senatore del Vermont, Bernie Sanders.

Le modalità con cui Sanders era stato sconfitto nelle primarie vinte da Hillary Clinton e le frustrazioni dei suoi sostenitori avevano causato forti preoccupazioni tra i vertici del partito, moltiplicatesi dopo la vittoria di Donald Trump. Per contrastare la crisi dei Democratici e l’emorragia di consensi si era provato così ad aprire le porte del partito a uomini vicini a Sanders, in modo da dare l’illusione della disponibilità a integrare un messaggio politico di “sinistra”.

In questo quadro, l’eventuale elezione di Ellison a numero uno del Comitato avrebbe potuto rappresentare una concessione simbolica e, tutto sommato, inoffensiva alla base “liberal”. Infatti, questo organo non ha particolari funzioni di elaborazione politica, ma serve più che altro a raccogliere fondi e a coordinare le strategie elettorali dei candidati Democratici ai vari uffici federali e locali.

La promozione e il successo di Tom Perez, ex ministro del Lavoro di Obama, ha invece suggellato il dominio del tradizionale apparato di potere Democratico sul partito. Una prova di forza, quella andata in scena sabato scorso ad Atlanta, che si è resa necessaria per bloccare sul nascere qualsiasi illusione sulla natura di un partito che è semplicemente l’espressione di quei poteri forti americani non schierati dalla parte dei Repubblicani.

L’elezione di Keith Ellison, al di là delle sue attitudini non esattamente rivoluzionarie, avrebbe potuto cioè ridare un qualche entusiasmo alla tradizionale base elettorale Democratica, minacciando la traiettoria reazionaria pro-business imboccata dal partito e dai suoi leader ormai da svariati decenni.

Per dare una qualche impressione di cambiamento, Perez aveva abbracciato quasi per intero l’agenda nominalmente “liberal” di Ellison. Dopo l’ufficializzazione dei risultati del voto dei membri del DNC nella serata di sabato, inoltre, il nuovo numero uno del partito si è affrettato a fare appello all’unità, nominando a proprio vice il suo sfidante.

La mossa era con ogni probabilità già stata studiata, visti anche gli ottimi rapporti tra i due, ma ha assunto carattere di urgenza dopo che l’annuncio della vittoria di Perez era stato accolto dai sostenitori di Ellison con urla di rabbia e slogan che invitavano a consegnare il partito “al popolo” e “non ai grandi interessi economici”.

L’esito del voto indica comunque l’esistenza di gravi divisioni sugli indirizzi del partito, non tanto per dare o meno una reale rappresentazione agli interessi di lavoratori e classe media, quanto piuttosto sulle concessioni esteriori necessarie per mantenere un’immagine credibile ed evitare di perdere del tutto la propria base elettorale nel paese.

Le apprensioni che circolano tra i Democratici sono state confermate dai numeri stessi. Mentre in passato l’elezione del numero uno del DNC era stata quasi sempre una formalità, sabato sono state necessarie due votazioni. Alla prima, Perez ha mancato la quota che gli avrebbe garantito il successo immediato per un solo voto. Alla seconda ha alla fine prevalso con 235 voti contro i 200 raccolti da Ellison.

Nelle primarie per le presidenziali dell’anno scorso, i membri del DNC che si erano schierati con Sanders erano stati appena 39 su quasi 450 totali, a conferma che da allora i vertici Democratici hanno moltiplicato gli sforzi per cooptare i sostenitori del senatore ed evitare una possibile spaccatura nel partito.

Anzi, nell’elezione a segretario del partito, Ellison aveva ottenuto anche l’appoggio di personalità importanti nell’apparato di potere Democratico, a cominciare dal leader di minoranza al Senato, Charles Schumer. Al suo fianco si erano schierate anche varie organizzazioni sindacali che un anno fa avevano invece sostenuto la candidatura di Hillary Clinton alla Casa Bianca.

Sulla sorte di Ellison hanno pesato inoltre le accuse di anti-semitismo che gli sono state rivolte e il suo presunto insufficiente impegno a favore di Israele. Secondo alcuni, la presa di posizione contro il deputato del Minnesota da parte del finanziatore Democratico israeliano-americano, Haim Saban, aveva rappresentato una sorta di veto per quest’ultimo. Saban e la moglie sono d’altra parte molto influenti nel partito, avendo donato negli ultimi anni ai suoi organi, nonché soprattutto alla famiglia Clinton, svariate decine di milioni di dollari.

La questione del nuovo segretario del Partito Democratico ha ad ogni modo suscitato poco interesse negli Stati Uniti al di fuori degli ambienti della politica e della stampa ufficiale. La sostanziale indifferenza in cui si è tenuto il congresso di Atlanta è stata dovuta anche all’assenza dal dibattito tra i candidati delle questioni politiche ed economiche più urgenti.

Soprattutto, poi, nessuno ha fatto accenno ai motivi che hanno gettato il partito nel discredito e permesso l’elezione di Trump alla presidenza, vale a dire la deriva reazionaria che ha raggiunto il culmine negli otto anni di presidenza Obama segnati da guerre, austerity e smantellamento costante dei diritti democratici.

Su questi punti, il Comitato Nazionale Democratico non ha avuto nulla da dire. Anzi, su un’altra questione che sta animando il dibattito politico USA, quella della presunta influenza del governo russo sull’amministrazione Trump, l’atteggiamento che ha prevalso in larghissima misura è stato di isteria e di assecondamento della caccia alle streghe in atto.

In questo senso si era espresso lo stesso Ellison nel corso di un dibattito tra i candidati alla guida del DNC trasmesso pochi giorni prima del voto dalla CNN. Perez, a sua volta, dopo avere incassato il successo è apparso nei programmi politici della domenica mattina per puntare di nuovo il dito contro Mosca, chiedere un’indagine sulle interferenze russe nel processo elettorale americano e collegare Trump al presidente Putin.

Le parole del nuovo segretario Democratico hanno così confermato come la battaglia del suo partito contro la nuova amministrazione Repubblicana continuerà a essere condotta principalmente da destra e avrà al centro gli interessi di quella parte della classe dirigente USA che considera la Russia come il proprio principale nemico strategico.

Parallelamente, la linea del Partito Democratico non divergerà da quella mantenuta finora, favorevole cioè ai grandi interessi economici e finanziari. Questa tendenza è stata confermata, tra l’altro, dal voto del Comitato nella giornata di sabato per bocciare la reintroduzione del divieto, deciso da Obama nel 2008 e abolito prima delle elezioni del novembre scorso, di accettare contributi elettorali dalle grandi aziende americane.

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