di Luca Mazzucato

Sam Bahour è un uomo d'affari americano di Youngston, Ohio, figlio di genitori palestinesi. Tredici anni fa, nel clima di euforia seguito agli Accordi di Oslo, decise di trasferirsi in Palestina, per fare la sua parte nella ricostruzione della martoriata economia dei Territori. E ci riuscì senza dubbio, fondando una compagnia di telecomunicazioni da cento milioni di dollari e il primo centro commerciale della West Bank, a Ramallah, dando lavoro a più di duemila palestinesi. In questi tredici anni passati nei Territori, Sam si è sposato e ha avuto due figlie. Un mese fa, il Ministero dell'Interno israeliano ha deciso di espellerlo, rinnovandogli per l'ultima volta il visto, con scadenza questa settimana. Senza nessuna spiegazione, entro qualche giorno Sam dovrà dire addio alla sua famiglia, e ai suoi affari. La storia di Sam Bahour è anche la storia di centinaia di americani di origine palestinese, uomini d'affari, professori universitari, medici, giornalisti, che da Gennaio di quest'anno si sono visti rifiutare l'ingresso o il rientro nei Territori Occupati, respinti al confine israeliano. Il caso è recentemente approdato all'attenzione di Condoleezza Rice, la quale ha affermato indignata: "Qui si tratta di cittadini americani!". A metà Ottobre il Segretario di Stato ha presentato una formale protesta all'Ambasciata israeliana a Washington, senza ottenere finora alcuna risposta. L'aspetto più sorprendente della faccenda è che gli ufficiali israeliani al confine rifiutino il visto d'ingresso, adducendo motivi di sicurezza o terrorismo, a imprenditori e professionisti con grossi investimenti nei Territori. Ma scopriamo che il motivo, secondo i palestinesi e le organizzazioni non governative, è in realtà il contrasto alla cosiddetta "minaccia demografica". Questa teoria, molto cara ad Ariel Sharon e al suo pupillo e attuale premier israeliano Olmert, si basa sul fatto che l'attuale maggioranza ebraica della popolazione tra la valle del Giordano e il Mediterraneo è fortemente minacciata dall'elevato tasso di crescita della minoranza palestinese. Il governo israeliano ha pertanto il dovere di "ridurre il più possibile l'approvazione delle richieste di ricongiungimento familiare, principale motivo di immigrazione nell'area" (legge del 1983). Inoltre, una modifica alla Legge sul Ritorno, prevede l'immediato rilascio della residenza israeliana a parenti di cittadini di religione ebraica, ma il rifiuto nel caso in cui la richiesta provenga da una famiglia di religione non ebraica (1995).

Ad un'analisi più approfondita, viene alla luce la dimensione impressionante di questo fenomeno, che non riguarda solo poche centinaia di professionisti americani. Circa 120.000 richieste di ricongiungimento familiare sono infatti in pendenza da anni presso il Ministero dell'Interno di Gerusalemme. Riguardano cittadini di paesi arabi, europei, ma soprattutto americani (con circa 37.000 persone sono la comunità straniera più numerosa dei Territori Occupati), la cui famiglia risiede in West Bank e a Gaza. Per evitare di rilasciare lo status di residenza legale, lo stato israeliano ha per anni assicurato a queste persone il rinnovo del visto turistico ogni tre mesi. Per ottenere il rinnovo bisogna ovviamente lasciare il paese per qualche giorno e poi tornare; per alcuni si tratta di un viaggio nel paese d'origine tramite l'aeroporto di Tel Aviv, per la maggior parte di una breve trasferta in Giordania. Dal momento che tutti i confini dei Territori Occupati sono controllati dall'esercito israeliano, l'ingresso in West Bank e Gaza è sotto la completa giurisdizione israeliana. Anche se i dinieghi di ingresso al confine ("denied entries") sono stati sporadicamente praticati dall'inizio della seconda Intifada nel 2000, è dal Gennaio di quest'anno, da quando cioè Hamas ha vinto le elezioni legislative palestinesi, che Israele ha iniziato a mettere in atto massicciamente questa pratica.
Come sempre nel conflitto israelo-palestinese, la dose di arbitrio è stupefacente: talvolta, anche se forniti di regolare visto d'ingresso rilasciato da un'ambasciata israeliana, i cittadini stranieri vengono interrogati per ore da ufficiali di confine e poi respinti; altri, che si rifiutano di ripartire, vengono imprigionati nei locali CPT israeliani per qualche giorno, in attesa di una sentenza del tribunale; più raramente, viene respinto l'ingresso ad un confine e accettato ad un altro confine a qualche centinaio di chilometri di distanza; infine, chi se lo può permettere a volte riesce a entrare ugualmente pagando una cauzione di 15.000 dollari.

Circa centoventimila persone sono dunque a rischio espulsione e di giorno in giorno cresce il numero di coloro che, una volta usciti, non possono più tornare alle loro famiglie, come nel caso di Sam Bahour. Si tratta dunque di una deportazione de facto della popolazione palestinese. Spesso infatti, la separazione dei nuclei familiari spinge l'intera famiglia a trasferirsi altrove. Un altro aspetto inquietante di questa vicenda è il diniego di ingresso a persone altamente qualificate, come ad esempio uomini d'affari, professori universitari o giornalisti, che rientra nella specifica tattica di boicottaggio delle istituzioni palestinesi e distruzione delle infrastrutture, che il governo Olmert persegue dichiaratamente. Secondo Sam Bahour, che è diventato attivista per il diritti al rientro, tutto questo è tanto più miope e dannoso per la stessa Israele, in quanto viene espulso proprio chi può contribuire a creare lavoro e portare benessere nei Territori, l'unico modo per assicurare una sicurezza duratura agli israeliani. Spezzando i nuclei familiari, al contrario, Israele non fa che alimentare la spirale di odio e di disperazione nei Territori. Negli ultimi mesi, la situazione è degenerata al punto che l'ingresso viene respinto ora anche a dipendenti e volontari delle ONG internazionali che lavorano in Palestina. In particolare, una ventina di cooperanti italiani sono stati espulsi da Israele senza alcuna motivazione ed il numero aumenta di settimana in settimana.

Per contrastare questa silenziosa deportazione, è stata lanciata in Settembre la "Campagna per il diritto di ingresso e rientro nei Territori Occupati", da parte di numerose ONG palestinesi, israeliane e internazionali e di alcuni parlamentari europei (si trova sul sito www.righttoenter.ps). Il primo risultato è stato l'interessamento alla questione del Dipartimento di Stato americano. Il prossimo obiettivo della campagna è l'intervento da parte dei governi dell'Unione Europea, finora del tutto assenti.

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