di Michele Paris

La vittoria schiacciante che si prospetta per il partito Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) di Daw Aung San Suu Kyi in Myanmar ha segnato prevedibilmente le prime elezioni considerate dalla comunità internazionale come realmente libere e credibili dal 1990. L’ex Birmania è alle prese da alcuni anni con la drastica inversione di rotta strategica intrapresa dalla propria classe dirigente. Se anche il trasferimento del potere dai militari a una nuova autorità civile guidata dal principale partito dell’opposizione dovesse risolversi pacificamente, gli obiettivi economici e strategici che verranno perseguiti nel prossimo futuro non si discosteranno di molto da quelli già fissati dal regime.

Nella giornata di lunedì, l’entusiasmo della popolazione birmana per il risultato delle urne si è diffuso rapidamente, spingendo i leader della NLD a dichiarare quasi con certezza il successo con percentuali che, su base nazionale, potrebbero aggirarsi addirittura attorno al 70%. Il partito di Aung San Suu Kyi ha in particolare fatto il pieno nella principale città, Yangon, dove avrebbe prevalso in 44 dei 45 distretti elettorali in cui è suddivisa.

I risultati definitivi arriveranno solo tra qualche giorno, ma anche svariati esponenti del Partito dell’Unione, della Solidarietà e dello Sviluppo, ovvero lo strumento politico dei militari al potere, hanno ammesso la sconfitta. Anche il potente ex generale Shwe Mann, presidente uscente del Parlamento, è stato battuto da un candidato della NLD, frustrando seriamente le sue aspirazioni a diventare presidente.

Secondo la Costituzione, ai militari va comunque assegnato automaticamente un quarto dei seggi parlamentari, così che la NLD dovrà conquistare i due terzi di quelli che erano in palio nel voto di domenica scorsa per garantirsi la maggioranza assoluta. In tal caso, la NLD potrà teoricamente approvare leggi senza dipendere dai militari, nonché eleggere un proprio candidato alla presidenza, ma non Aung San Suu Kyi, visto che la Costituzione proibisce di ricoprire tale carica a chiunque abbia cittadini stranieri tra i propri parenti più stretti.

Il premio Nobel per la Pace è stata subito protagonista di un’apparizione pubblica lunedì, nel corso della quale ha prospettato in maniera cauta la vittoria del suo partito e, riflettendo forse qualche timore per la ripetizione dei fatti del 1990, quando le elezioni vinte a valanga dalla NLD furono cancellate dai militari, ha invitato gli sconfitti ad accettare i risultati “serenamente e con coraggio”.

La misura del successo elettorale della Lega Nazionale per la Democrazia in Myanmar chiarisce senza incertezze il livello di avversione presente nel paese del sud-est asiatico nei confronti di un regime repressivo che per decenni ha chiuso ogni spazio alla società civile e, anche a causa delle sanzioni internazionali, ha imposto condizioni materiali di vita insostenibili alla maggior parte della popolazione.

Qualche anno fa, la giunta militare al potere aveva intrapreso una svolta strategica decisiva, svincolandosi relativamente dalla Cina, di fatto l’unico vero partner politico e commerciale per i due decenni precedenti, per mandare segnali di distensione verso l’Occidente. Gli Stati Uniti, in particolare, avevano immediatamente manifestato la propria disponibilità ad aprire un percorso di pacificazione, dal momento che la nuova attitudine del Myanmar ben si incastrava con le iniziative allo studio a Washington per cercare di contenere la Cina attraverso la creazione o il consolidamento di partnership con i paesi dell’Asia sud-orientale.

In cambio del riconoscimento internazionale del regime birmano e dell’annullamento delle sanzioni, gli Stati Uniti e i loro alleati avevano imposto l’attuazione di varie “riforme democratiche”, principalmente per nascondere agli occhi dell’opinione pubblica occidentale i veri interessi strategici ed economici in gioco dietro il consueto paravento della promozione dei valori democratici. Il possibile abbraccio del Myanmar con l’Occidente, infatti, presentava e presenta tuttora ghiottissime possibilità di profitto per il capitale americano, europeo, giapponese e australiano.

La prospettiva di attrarre investimenti stranieri e “modernizzare” il paese con una lunga serie di “riforme” è stata promossa sì dal regime birmano, sia pure tra incertezze e divisioni interne, ma è stata sostanzialmente accettata anche dalla NLD e da Aung San Suu Kyi.

Dietro lo scontro tra forze bollate come retrograde e dittatoriali da una parte e quelle “democratiche” dall’altra vi è in realtà un fondamentale accordo sulla necessità di trasformare il Myanmar nella nuova frontiera per gli investimenti internazionali e nell’ennesimo centro di sfruttamento del lavoro a bassissimo costo nel sud-est asiatico.

L’entusiasmo generato dalla NLD e dalla trasformazione di Aung San Suu Kyi in una vera e propria icona democratica sono senza dubbio il segnale di un diffusissimo desiderio di cambiamento nella ex Birmania e delle aspirazioni a una vita migliore. Tuttavia, che questo partito possa diventare un’autentica forza in grado di generare un processo trasformativo in senso progressista e che porti benefici a decine di milioni di persone che vivono oggi in povertà è alquanto improbabile.

La NLD è infatti il partito della borghesia liberale e filo-occidentale del Myanmar che negli ultimi due decenni è stata esclusa dalle possibilità di prosperare a causa delle sanzioni internazionali e del monopolio esercitato sull’economia e sulle strutture del potere da parte dei militari e di una ristretta cerchia di ricchi imprenditori con legami ad altissimo livello. L’obiettivo primario del partito e della sua classe di riferimento è perciò quello di assicurarsi il controllo dei processi innescati dall’apertura del paese all’economia di mercato.

Per comprendere quali siano gli orientamenti ideologici del partito di Aung San Suu Kyi è sufficiente una rapida scorsa alla piattaforma economica approvata dai suoi dirigenti nel 2013. Il partito prometteva senza indugi di adottare una politica economica “orientata verso il mercato”, creando soprattutto le condizioni più favorevoli all’afflusso di capitale estero.

Uno dei punti principali era la deregolamentazione del settore finanziario e la promozione delle liberalizzazioni in vari ambiti, partendo dalla privatizzazione delle aziende di stato. La NLD si diceva poi entusiasta delle nuove regole già implementate dal regime per assegnare contratti alle multinazionali straniere nel settore energetico ed estrattivo, mentre sposava in pieno il passaggio da un sistema basato sul settore agricolo - con una probabile “riforma” agraria dagli effetti devastanti per milioni contadini - alla diffusione di impianti manifatturieri destinati ad alimentare l’export.

Consapevole delle implicazioni economiche e sociali di un’evoluzione che intenda far approdare il Myanmar nel paradiso del capitalismo internazionale, in un’intervista rilasciata nel 2014 al Wall Street Journal, un alto dirigente della NLD metteva in guardia la popolazione da aspettative eccessive, poiché i cambiamenti allo studio non avrebbero comunque generato un livello di benessere diffuso ancora per molto tempo.

Le questioni economiche e i piani della NLD in questo ambito sono ad ogni modo rimasti fuori dal dibattito che ha preceduto le elezioni, dominato invece dai proclami ispirati ai valori democratici e dalla possibilità di ridurre per la prima volta l’influenza dei militari.

Le credenziali democratiche di questo partito sono state però minate da alcuni episodi significativi nei mesi scorsi. La maggioranza della NLD aveva ad esempio emarginato molti membri del movimento “Generazione 88”, protagonista della rivolta contro il regime repressa nel sangue nel 1988.

Dei 17 aspiranti alla candidatura nelle elezioni generali di questo gruppo, soltanto uno è stato accettato dai vertici della NLD, mentre aspre critiche ha anche suscitato la decisione del partito di ignorare le richieste dei suoi iscritti ed escludere vari candidati graditi a questi ultimi a favore di altri considerati di orientamento troppo conservatore.

Qualche malumore anche a livello internazionale aveva provocato infine il sostanziale adeguamento della NLD e di Aung San Suu Kyi stessa alla campagna del regime contro la minoranza musulmana Rohingya che vive in Myanmar. Per cominciare, quasi 800 mila Rohingya nello stato occidentale di Rakhine, che avevano partecipato alle elezioni parlamentari del 2010 e a quelle suppletive del 2012, sono stati privati del diritto di voto in questa tornata.

La decisione, presa mesi fa dal regime del presidente Thein Sein, faceva seguito alle persecuzioni subite dalla minoranza di fede islamica, alimentate dal governo stesso e condotte sul campo da fondamentalisti buddisti, protagonisti di veri e propri pogrom che hanno fatto centinaia di morti e trasformato altre centinaia di migliaia di Rohingya in profughi e detenuti in speciali campi di prigionia.

Non solo la NLD non ha presentato un solo candidato musulmano nelle elezioni appena terminate, ma i suoi vertici, inclusa il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, non hanno ritenuto di dover sollevare la questione dei Rohingya nel corso della campagna elettorale.

Il voto in Myanmar è stato comunque accolto molto positivamente dal governo americano. Il segretario di Stato, John Kerry, ha emesso un comunicato nella giornata di domenica, elogiando “l’importante passo avanti” compiuto con le elezioni, pur sottolineando “i significativi ostacoli strutturali” che rimangono sulla strada verso un “governo pienamente democratico e civile”.

Le dichiarazioni provenienti da Washington riflettono in altre parole le speranze legate alla possibile formazione di un governo guidato dalla NLD e da Aung San Suu Kyi, la cui liberazione dagli arresti domiciliari era stata una delle principali condizioni per lo sdoganamento del regime militare qualche anno fa.

Parallelamente, riferendosi agli “ostacoli” che ancora impediscono il pieno sviluppo della democrazia nella ex Birmania, Kerry intende ricordare alla classe dirigente indigena come l’allineamento agli interessi strategici ed economici degli USA dovrà essere assicurato fino in fondo. In caso contrario, le “carenze democratiche” del Myanmar potranno essere sfruttate in qualsiasi momento per rigettare il paese nell’isolamento degli ultimi vent’anni.

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