di Michele Paris

Qualche giorno fa, il Cancelliere dello Scacchiere del governo di coalizione britannico, George Osborne, ha presentato ufficialmente il bilancio per il prossimo anno che, come previsto, contiene nuove misure che beneficiano i redditi più elevati a spese della grande maggioranza della popolazione. Due iniziative, in particolare, hanno suscitato polemiche tra l’opposizione e una parte della stampa: l’abbattimento dell’aliquota fiscale più alta prevista dal codice del regno e quella che è già stata ribattezzata “Granny Tax”, destinata a colpire 5 milioni di pensionati d’oltremanica.

In un paese dove in questi due anni il governo, appoggiato da una maggioranza di conservatori e liberal-democratici, ha già adottato devastanti misure di austerity che hanno ridotto drasticamente la spesa pubblica, peggiorato le condizioni di vita di lavoratori e classe media, aumentato il livello di disoccupazione, mercoledì Osborne ha annunciato la riduzione dell’aliquota fiscale prevista per i contribuenti più ricchi dal 50% al 45%.

Questo livello di tassazione massima, che a detta di Osborne dava un segnale negativo agli investitori, era stato introdotto dal governo laburista come misura provvisoria, andando teoricamente a colpire i redditi superiori alle 150 mila sterline annue. Un simile carico fiscale, tuttavia, è stato puntualmente evitato dai più facoltosi contribuenti britannici grazie ad una serie di scappatoie legali che lo stesso Osborne ha ora promesso di eliminare, così da bilanciare le perdite che andranno a subire le casse statali. Ciononostante, le classi privilegiate del Regno Unito hanno ugualmente preteso dal governo Cameron, che rappresenta i loro esclusivi interessi, il consistente abbassamento dell’aliquota massima.

Il Cancelliere, da parte sua, ha cinicamente affermato che l’aliquota del 50% non ha generato il gettito di 2,6 miliardi di sterline previsto e perciò essa andava abolita interamente. La mossa del governo appare estremamente impopolare, dal momento che qualsiasi sondaggio di opinione ha mostrato come la maggioranza degli inglesi ritenga che i loro connazionali più ricchi debbano essere tassati di più in questo periodo di crisi.

Assieme a questa misura, Osborne intende abbassare anche la tassa sulle corporation al 24% da subito e al 22% entro il 2014, portando così a 5 punti percentuali la riduzione complessiva a partire dall’insediamento del governo Cameron nel maggio 2010. Questo provvedimento, per Osborne, servirebbe alla crescita economica della Gran Bretagna, attirando investimenti esteri che, diversamente, potrebbero essere dirottati su altri paesi con aliquote più favorevoli, a cominciare dalla vicina Irlanda (20%).

A dare l’idea del danno alle casse statali provocato da simili “riforme” fiscali è stata, ad esempio, un’analisi del Guardian, secondo la quale il Tesoro britannico potrebbe incassare fino a 20 miliardi di sterline in meno nei prossimi tre anni. Il costo di tali provvedimenti graverà inevitabilmente sulle spalle di lavoratori, pensionati, classe media e di coloro che sono costretti a vivere di assistenza pubblica, vale i segmenti più deboli della popolazione già colpiti in maniera sproporzionata dalla crisi economica e dalla risposta ad essa venuta sia dal governo laburista che da quello conservatore-liberaldemocratico.

La seconda misura che ha causato le maggiori divisioni all’interno dell’esecutivo e tra i suoi sostenitori è la già citata “Granny Tax”, secondo la quale verranno congelate le consuete detrazioni fiscali previste per i pensionati. Essa dovrebbe far risparmiare allo stato circa 5 miliardi di sterline e costerà a quanti vivono di pensione tra le 60 e le 200 sterline all’anno.

Se pure la perdita di reddito per i pensionati appare relativamente contenuta, va ricordato che il welfare britannico è già stato privato da questo governo di 18 miliardi di sterline, mentre altri 10 miliardi di tagli sono previsti entro il 2016. Numeri, questi, che si concretizzeranno in una riduzione del 5,3% della spesa pubblica totale, colpendo il tenore di vita di decine di milioni di persone. A tutto questo vanno aggiunti almeno anche i licenziamenti di massa tra i dipendenti pubblici e, nelle ultime settimane, l’accelerazione delle privatizzazioni nel settore della sanità.

Il budget presentato da George Osborne, in larga misura modellato su proposte dei Tories, è stato nuovamente accettato integralmente dai liberal-democratici, considerati almeno fino a due anni fa addirittura a sinistra dei laburisti. Il tracollo dei consensi per quest’ultimo partito fin dall’ingresso nel governo Cameron difficilmente sarà arrestato dalle modestissime misure a favore dei redditi più bassi introdotte nel nuovo bilancio. Le principali risultano essere l’aumento dal 5% al 7% della tassa sui possessori di immobili del valore di oltre 2 milioni di sterline e l’innalzamento a 9.250 sterline/anno del reddito minino al di sotto del quale non vengono pagate tasse.

Contro alcuni dei provvedimenti fiscali del governo di Londra, in particolare la “Granny Tax”, si sono scagliati anche i giornali vicini ai conservatori, come il Daily Mail o il Daily Telegraph. Il timore per gli ambienti a cui fanno riferimento questi quotidiani è che la mano pesante dell’esecutivo possa rendere sempre più impopolare la maggioranza che sostiene l’esecutivo, provocando un’esplosione del conflitto sociale nel paese. Misure punitive contro i pensionati, inoltre, rischiano di alienare questa fetta dell’elettorato che aveva contribuito in maniera decisiva alla vittoria dei Conservatori nel 2010.

Le iniziative fiscali appena avanzate da Osborne, assieme a quelle precedenti di austerity per ridurre il debito britannico e obbedire al diktat dei mercati finanziari, sono state adottate praticamente senza ostacoli. Nonostante la retorica del Labour, l’ex partito di maggioranza non ha in realtà fatto una seria opposizione, poiché condivide in sostanza la linea del rigore e perché molte delle misure implementate dall’attuale governo, a cominciare dalla “riforma” del settore pubblico, erano state valutate inizialmente proprio dai laburisti. Le stesse organizzazioni sindacali, infine, non sembrano intenzionate a mobilitare i lavoratori britannici, come dimostra la rientrata minaccia di sciopero generale che avrebbe dovuto essere organizzato entro la fine del mese di marzo.

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