di Lidia Campagnano

E adesso a Peter Handke, forse il più grande scrittore contemporaneo in lingua tedesca, viene letteralmente tolto dalle mani il premio Einrich Heine: la città di Dusseldorf preferisce non celebrare uno dei riti culturali più prestigiosi per la Germania piuttosto che rendere omaggio all'autore austriaco che ha partecipato ai funerali di Slobodan Milosevic. Una decisione tutta politica, come lo era stata lo scorso aprile quella della Comédie Française di togliere dal cartellone una pièce di Handke già programmata. Ma che cosa sta succedendo nell'Europa della libertà di pensiero? Sta succedendo qualcosa di nuovo davvero: uno scrittore, un poeta è riuscito a mettere alle corde il bon ton intellettuale, i sentimenti politicamente corretti e politicamente trasversali del Vecchio Continente. L'epoca in cui viviamo di solito mostra uno stomaco robusto, capace di digerire e di rendere semplicemente irrilevanti le voci poetiche che giudicano il mondo: censurarle è reputata cosa da fondamentalismo islamico. Ma lo scrittore che ha percorso a piedi la Jugoslavia per descriverla, il poeta severo capace di stanare l'antisemitsmo europeo dai suoi nascondigli più riposti, il critico più intelligente dei vizi del pensiero massmediatico dominante (ammesso che possa chiamarsi ancora pensiero) è riuscito a far saltare i nervi dell'Europa perbene, scoprendo una piaga che tutti vogliono dimenticare e della quale nessuno si cura. La piaga è l'opera di distruzione della Jugoslavia come soggetto statale federato e unitario e il suo compimento sanguinoso: il bombardamento della Serbia, del Montenegro e del Kosovo e il tentativo abortito di una autogiustificazione legale a posteriori, tramite il processo a Milosevic presso il Tribunale internazionale dell'Aja. Un processo che minacciava di essere senza fine, poiché mirava ad attribuire a un avversario politico (politicamente responsabile finché si vuole) il ruolo di imputato criminale pressoché unico, mandando così implicitamente assolti tutti i colpevoli materiali di massacri stupri e crudeltà di ogni genere: serbi, croati, musulmani di Bosnia, tagliagole kosovari indipendentisti, mercenari di ogni angolo del mondo Italia inclusa, talebani accorsi a frotte e criminali comuni di ogni sorta. Un processo senza giustizia dunque, incapace di rispondere con qualche verità alle domande delle vittime: chi è stato, perché.

Handke spera che lo "scandalo" di queste censure nei suoi confronti riapra finalmente la strada a una presa di coscienza sul disastro compiuto dall'Europa in Jugoslavia, ai danni del proprio stesso futuro. E con questa speranza rimane il poeta che è, indisponibile al cinismo. Si "espone", di nuovo, con la sua scrittura che aspira al disegno nitido, a matita, di cose e persone e perciò a quella materialità d'amore che lo ha portato ad alcune tra le più belle e commoventi descrizioni della natura, delle persone e delle esili e amabili strutture della con-vivenza elementare nella Jugoslavia distrutta. Nessuna ideologia lo ha indotto a invocare "giustizia per i Serbi", salvo forse una precisa memoria storica, da austriaco (e da artista tenacemente attento al presente) degli inganni necessari a qualunque distruttore per trasformare in violenza i suoi intenti e per dimenticare e far dimenticare ogni colpa commessa.

Peter Handke ha mostrato di comprendere la gravità della ferita inferta dall'intervento in Jugoslavia alla storia europea, lo sbando che ha indotto nelle menti, la rottura con ogni principio di responsabilità capace di tenere in conto il passato per lasciare aperto il futuro. Non essendo in nessun modo un politico, non ha rivolto i suoi bruschi moniti al soggetto che più si è ammalato in conseguenza della politica praticata in Jugoslavia: la sinistra. Forse perché non ha visto (più?) differenza alcuna tra i due punti di vista "naturalmente" e teoricamente opposti. Ma è proprio gran parte della sinistra europea a reagire in maniera più scomposta ad ogni suo lavoro, a mostrare il desiderio di volerlo tacitare: come si vuole tacitare chi avverte di un pericolo mortale, o di una già avvenuta perdita d'anima, di cui fare lutto se non si vuole morire.

Meglio una reazione scomposta che il silenzio, deve aver pensato Peter Handke. Ha ragione. Chissà che qualcuno in più non vada a cercare nelle sue pagine l'infamia che non troverà, inciampando invece nel ricordo di un paese bellissimo che mancherà per sempre al mosaico europeo: perdita secca, estinzione tragica della quale si occuperà l'archeologia, specchio infranto di ciò che potrebbe succedere anche ad altre plaghe di mondo, e già succede.

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