di Carlo Benedetti

L'Unione Sovietica di Breznev lo aveva espulso dal paese nel 1976. Lui - Aleksandr Zinoviev, classe 1922, eroe della guerra, matematico e filosofo di chiara fama - era "colpevole" di aver criticato il sistema del Cremlino. Anticonformista e spirito libero fu cacciato in seguito alla pubblicazione del romanzo "Cime abissali". Se ne andò a vivere a Monaco di Baviera pubblicando liberamente racconti e saggi di logica, filosofia e linguistica. Lasciò così, sempre fermo nelle sue posizioni antistaliniste, quell'Unione sovietica dove, nonostante tutto, si sentiva "sovietico". Ora se n'è andato lasciando a chi lo ha letto, ammirato, studiato e compreso, un'immagine indelebile. Quella di "homo sovieticus" eterno dissidente, autonomo nei giudizi ma vero interprete della realtà e fortemente critico dei passaggi storici imposti dalla perestrojka gorbacioviana. Rientrò a Mosca nel 1999 e furono in molti a pensare che la sua apparizione sulla scena post-sovietica avrebbe portato acqua al mulino del nuovo Cremlino. Del resto era stato lui a dire - applaudito - che "il sistema sovietico ricorda effettivamente una prigione, tuttavia è diverso. Per esempio, la gente guadagna poco, ma lavora poco. Non ha bisogno di libertà politiche individuali e, per le altre libertà, ci sono compensi e palliativi - grossolanità, alcolismo, lassismo - che dimostrano quanto la popolazione sia caduta in basso, ma servono a soddisfarla". E sempre in vena di rievocazioni sociali e politiche aveva detto - riferendosi agli anni di Krusciov - che quell'epoca aveva strappato semplicemente il telo protettivo all'edificio che gli anni di Stalin avevano costruito. Aggiungendo che con Breznev Mosca era solo un triste e grigio pantano d'esistenza. E che quanti se n'erano resi conto e avevano cercato di muovere le acque, foss'anche a titolo di protesta personale contro tutto e tutti, non c'erano più.

Ma, a poco a poco, lo Zinoviev del dissenso cominciò - proprio in occidente - una sua particolare scalata verso posizioni di nuova e dura critica nei confronti di quanto stava avvenendo nel Paese che lo aveva cacciato. Divenne un inflessibile accusatore del gorbaciovismo che considerava come "un gigantesco imbroglio, soprattutto "un imbroglio dell'opinione pubblica occidentale". Con un Gorbaciov da non considerare "uomo intelligente e moderno". Siamo in presenza - dichiarò nel febbraio 1986 - di "un personaggio che è solo un demagogo".

Il clima della nuova Russia lo riportò poi nel Paese. E quella sera del marzo 1999 andammo a salutarlo nel teatrino della "Casa del Cinema" di Mosca. Poca gente ma tutti curiosi di sentire cosa avrebbe detto. E Zinoviev non tradì le attese. Si rivelò più "sovietico" che mai. Disse: avete messo in moto una macchina infernale. Credete di aver distrutto un paese e il suo sistema sfasciando tutto e creando calcinacci ovunque. Ed ora credete di poter costruire ex novo ogni cosa, utilizzando i materiali della distruzione, i frammenti, i mattoni rotti. Ebbene sappiate che dai calcinacci nascono solo calcinacci. La catapecchia che esisteva è squassata, ma da una catapecchia squassata può tornare a nascere solo una catapecchia: "Nuova, è vero, ma sempre catapecchia".

Rileggo ora gli appunti di quella serata moscovita e rivedo le facce incredule di quanti erano seduti in quella sala. Si aspettava uno Zinoviev pimpante, accusatore. E invece le accuse furono quelle di un dissidente, ma pur sempre decisamente sovietico. Forse anche nostalgico. "Io ho sempre sostenuto e sono ancora pronto a sostenerlo che il periodo sovietico è stato l'apice della storia russa - disse. Grazie al sistema sociale del comunismo, nel Paese si sono registrati cambiamenti epici. Grazie a questo sistema il Paese ha retto la guerra e in poco tempo si è ripreso mettendosi poi alla pari delle grandi potenze. Il sistema comunista ha dimostrato la sua potenzialità, la sua vitalità. Nel tempo della sua esistenza (dal punto di vista storico) non è riuscito ad esprimere tutte le sue potenzialità. Il sistema è stato sconfitto da forze interne, dal gruppo dirigente e dalla guerra fredda dell'occidente". Fu quella sua dichiarazione la vera "lapide" della serata. Da quel momento cominciarono le sue nuove considerazioni sulle sorti della Russia, sulla fede, sul significato di democrazia e di società di diritto. E soprattutto sul trionfo della ragione. Ai "democratici" che hanno distrutto il "suo" Paese, lascia in eredità la forza pesante dei suoi ragionamenti.

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