di Fabrizio Casari

Il Nobel per la pace assegnato a Barak Obama è certamente un segnale positivo per gli sforzi che il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato - per ora solo annunciato - di voler compiere nel ripristinare il riequilibrio nel sistema delle relazioni internazionali. Per la prima volta, il Nobel viene assegnato non per quanto il destinatario abbia fatto, ma per quello che - si spera - farà. Perché é il sogno, più che la realtà, che Obama ha fatto vivere fino ad ora. Primo paragrafo del sogno é l’abbandono dell’unipolarismo statunitense, che nelle intenzioni della Casa Bianca dovrebbe essere superato da un nuovo multipolarismo, segnerebbe il definitivo abbandono delle tesi neocons (sulle quali le politiche degli otto anni di presidenza Bush si sono incentrate) e rappresenterebbe il fulcro della nuova immagine degli Stati Uniti sulla scena mondiale. Ma il cammino appare tutt’altro che semplice, dal momento che le difficoltà maggiori risiedono, a tutt’oggi, nel rapporto tra Obama e l’apparato militare a stelle e strisce.
 
In presenza di uno scontro aspro sui temi di politica interna (riforma sanitaria in primo luogo, ma non solo) fino ad oggi Obama risulta essere ancora ostaggio del complesso militar-industriale statunitense e delle diverse lobbies che ne guidano l’agenda politica, interna ed estera. Il primo segnale della difficoltà che la Casa Bianca ha incontrato nel rapporto con il Pentagono e con la stessa Cia, è stato evidente nella gestione dell’affaire Guantanamo e nella nuova dottrina sulle procedure per le covert actions. Ma non solo. La difficoltà di Obama nel far accettare alle lobbies militari e finanziarie del Paese la nuova politica estera e di difesa, sono state continue ed esprimono il senso di uno scontro dagli esiti ancora incerti.

Obama ha certamente messo a segno dei punti importanti, il maggiore dei quali è la cancellazione del progetto di scudo spaziale nell’Europa dell’Est, che l’Amministrazione Bush aveva fortemente voluto indicando nell’Iran la minaccia, ma pensando invece nella Russia come potenziale nemico da contenere. Era una sorta di riedizione delle guerre stellari di Reagan, che trasformava l’Europa in una gigantesca polveriera atomica e riportava il mondo intero sull’orlo della guerra fredda. La cancellazione del progetto e la conseguente ripresa dei colloqui con Mosca é stata certamente una vittoria del Presidente Obama. Ma, al momento, sembra essere la sola significativa vittoria, di fronte ad un Pentagono che non ha nessuna intenzione di cedere terreno (cioè potere, commesse e ruolo interno ed internazionale).

Obama, politicamente indebolito all’interno, è stato così costretto ripetutamente a compromessi con i militari su diversi terreni. Se, infatti, proviamo ad analizzare senza paraocchi le scelte concrete - quelle cioè sul campo e non davanti a telecamere e microfoni - che l’Amministrazione Obama ha compiuto, troviamo quasi esclusivamente una sostanziale continuità con le scelte delle precedenti amministrazioni.

In Iraq e in Afghanistan non si avvertono segnali evidenti di ritiro e di ripensamento della strategia. Piuttosto Obama sembra ancora alla ricerca di una comunione d’intenti con il Pentagono, cosa che determina l’assenza, ad oggi, di una exit strategy degna di nome. Che sia cioè praticabile sotto il profilo militare, politico e diplomatico. Se poi ci spostiamo sull’America latina, troviamo con maggiore evidenza l’affermarsi delle politiche di riarmo e di funzione da gendarme continentale ispirate dal Pentagono, ansioso di recuperare terreno in un continente che Bush riteneva secondario per gli interessi del dominio unipolare statunitense, preferendo dedicare le mire della sua lobby petrolifera al Golfo Persico, all’Asia minore ed al Medio oriente.

A sud del giardino di casa, infatti, gli Usa continuano nel tentativo di recuperare con la forza il terreno perso politicamente negli ultimi anni, quando la rinascita democratica latinoamericana ha portato alle vittorie della sinistra in Venezuela, Ecuador, Bolivia, Cile, Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Nicaragua e Honduras e con ciò ha abolito, di fatto, il Washington consensus, fino a dieci anni fa stella polare dell’indirizzo politico del continente. In primis con il golpe in Honduras, da Washington condannato in maniera decisa solo dopo il fallimento di ogni tentativo diplomatico di riportare il legittimo Presidente Zelaya a Tegucigalpa. Oltre ad aver speso più parole di rimprovero per Zelaya che per il golpista Micheletti, restano, gli Usa, l’unico paese della comunità internazionale ad avere ancora il loro ambasciatore a Tegucigalpa e la loro base militare perfettamente operativa nella collaborazione con l’esercito golpista. Vorrà dire qualcosa?

Spostandoci più a sud, emerge con chiarezza il progetto di occupazione militare della Colombia contenuto nell’accordo, recentemente ratificato, tra Bogotà a Washington. Sette basi militari statunitensi in Colombia (alle quali potrebbero aggiungersene altre cinque), frutto di un accordo segreto (prassi inedita per gli accordi internazionali) tra Uribe e Obama. Le basi, dicono, serviranno a combattere il narcotraffico. Ma nessuna strategia militare contro i cartelli prevede l’uso di armamenti convenzionali e nucleari tattici e migliaia di effettivi. Nessuna lotta al narcotraffico: le basi serviranno invece alla minaccia costante a Brasile, Venezuela ed Ecuador, costretti ora a rafforzare i rispettivi dispositivi militari per bilanciare l’area. A questo si aggiunge il progetto della IV Flotta militare della U.S Navy, riesumato da Bush e che serve al pattugliamento del mar dei Caraibi con intenzioni chiaramente belliciste e minacciose verso Cuba e Venezuela in primo luogo.

Persino verso Cuba, nei confronti della quale pure dal punto di vista formale piccoli passetti sono stati compiuti, non si avverte il cambio sostanziale della politica Usa degli ultimi cinquant’anni: il blocco è stato recentemente confermato da Obama, che poi si guarda bene anche dal metter fine allo scandalo della detenzione illegittima dei cinque cubani detenuti nelle carceri statunitensi per aver smascherato i legami tra la lobby cubano-americana di Miami e l’intero apparato d’intelligence statunitense nella programmazione del terrorismo contro Cuba. Avrebbe a disposizione diversi strumenti, da ultimo anche il perdono presidenziale, ma se ne guarda bene dall’utilizzarli.

Obama, insomma, per ora continua a proporre una visione del mondo e sogno americano che mal si concilia con la realtà sul campo. Se non avrà ragione delle resistenze del complesso militar-industriale e non riuscirà a proporre una nuova era nelle relazioni internazionali, il Presidente Usa rischia di diventare il volto pulito di un regime sporco. Nove mesi di presidenza è certamente poco per proporre un’altra America per un altro mondo, ma è abbastanza per dimostrare come la vittoria elettorale non sia sufficiente ad aprire una fase nuova nelle politiche interne ed estere del gigante ferito.

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