di Rosa Ana De Santis

Si tiene in questi giorni, a Città del Capo, il Congresso mondiale di ginecologia e ostetricia. I numeri che riguardano la pelle delle donne, le percentuali degli aborti, soprattutto delle giovanissime, disegnano i contorni di una condizione di genere sotto assedio. Un quarto delle donne che abortiscono sono adolescenti, la clandestinità dei rimedi cui si ricorre è la risposta immediata di vite congelate in una miseria totale e atavica. Tredicimila esperti si confrontano su questo scenario. Educazione nelle scuole è la parola d’ordine e fa buona pubblicità sulla stampa occidentale, non c’è dubbio. Informazione e contraccezione sono gli ingredienti fondamentali. Le parole degli esperti chiamano in causa  il compito delle scuole pubbliche e quello delle istituzioni.

Idee sane e proiettate sul successo nel lungo periodo, con una difficoltà procedurale e contingente schiacciante. La condizione della maternità e quindi anche della non maternità non è legata unicamente alla condizione della donna, alla sottomissione sociale e privata, alla violenza, ma a un contesto di povertà strutturale da cui non sarebbe possibile né onesto separare la singola situazione, il singolo problema a meno che se non si volesse correre il rischio di approntare l’ennesima teoria corretta e piena di fascino, scollegata da ogni ragionevole contestualizzazione. Preservativi, farmaci, terapie anti HIV hanno un costo proibitivo per quasi tutti. La scuola per prima ce l’ha.

E’ la misera a interdire l’accesso alla cultura, all’informazione e quindi alla consapevolezza di sé e alla tutela della propria salute. E’ proprio la canadese Dorothy Shaw a ricordare che il problema culturale non può essere mai disgiunto dalla discriminazione economica. Le parole degli esperti e le buone intenzioni non possono prescindervi e possono semmai diventare una pressione in più per i governi chiamati in causa. Una soluzione alla Lula, con i preservativi quasi gratis, può sembrare una provocazione, non più di un pronto soccorso per l’emergenza, ma comunque un valido richiamo al cuore del problema. La sensazione è che le buone parole sull’educazione, senza il monito all’economia, siano l’ennesima esibizione dell’ autorefernzialità occidentale.

Non c’è dubbio che l’utilizzo del preservativo sia difficile da integrare con un paradigma maschilista della famiglia e delle relazioni uomo-donna, lo è persino quando c’è un rischio di contagio di malattie a trasmissione sessuale, figurarsi nella scelta e nella programmazione delle gravidanze: una chimera culturale. Ma non è difficile che una donna veda i propri figli senza scarpe né vestiti, spesso senza cibo e senza scuola e non riesca a vedere la priorità della contraccezione. E’ la povertà economica a impedirle questa forma di riscatto, ogni forma d’informazione ed educazione. Inutile nascondersi tra le parole: una ragazza in una città che la affama preferirà morire di HIV più in là, che di fame subito. Questo è quello che rispondono molte alle domande dei volontari.

Il binomio efficace, secondo il Presidente della Società italiana di ginecologia ed ostetricia (SIGO), Giorgio Vittori, è quello della pillola e del preservativo, per agire sia sulla questione della gravidanze non programmate - e quindi sui numeri degli aborti - sia per abbattere le infezioni sessuali. Bisognerebbe ricordare però, che nei territori più tartassati dell’Africa, sono i missionari cattolici ad essere presenti e ad insegnare approcci molto diversi sui costumi sessuali e sulle questioni della vita familiare. Magari non del tutto in linea con quelle ortodosse di Roma, ma certamente non così tanto eretiche. La SIGO, rientrata in patria potrebbe pubblicamente sottoporre la sua relazione tecnica al Santo Padre. E’ chiaro però che debbano essere gli stati e non le missioni o le ONG a farsi carico unicamente di certe campagne. Solo in questo modo si esce dall’alibi della solidarietà.

Ma si rimane come immobili di fronte alla normalizzazione di un’Africa in morte. L’afasia di un assurdo concettuale e morale. I governi per primi. L’accettazione pacata di una miseria così disperante è insopportabile. Eppure in Africa è normale ammalarsi, non potersi curare, non avere i farmaci, non poter difendere la vita dei giovani e delle bambine. Questa gente è semplicemente nata nella parte sbagliata di mondo. Forse destinata a soccombere per tenere noi belli grassi e tutti in piedi. In Africa, ignorando l’Africa, a volte si lavora a fiumi di soldi e lauti rimborsi per la cultura e per la bandiera dell’educazione; siamo abili a fare business in tutto, anche della coscienza e del male assoluto.

Forse la verità è che l’Africa toglie il fiato con il suo scandalo e con le sue contraddizioni e che di buone teorie siamo ormai in overdose. Quelle donne e le loro storie ci obbligano, prima di tutto, a ricordarci quanto siamo lontani dall’economia dell’inferno.

 

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