di Eugenio Roscini Vitali

Erano centinaia le persone che lo scorso venerdì 2 ottobre affollavano la moschea di Conakry. Erano accorse per identificare i corpi delle persone rimaste uccise durante gli scontri avvenuti in occasione della manifestazione organizzata il lunedì precedente dagli oppositori del regime del Capitano Moussa Dadis Camara, contrari alla candidatura del capo della giunta militare all'elezione presidenziale di gennaio. Una protesta repressa nel sangue, una carneficina finita con decine di cadaveri all'obitorio dell’ospedale universitario Donka, tutti segnati da ferite da taglio o da arma da fuoco riportate durante gli scontri con le forze di sicurezza: 54 morti secondo le fonti ufficiali; 157 e più di 1.200 feriti per le organizzazioni impegnate nella battaglia per i diritti umani.

Un passaggio alla democrazia invocato da migliaia di persone riunitesi intorno allo stadio “28 settembre”, lo stesso intitolato al giorno del referendum con il quale il popolo di Guinea mise fine al periodo coloniale francese, lo stesso impianto in cui si svolsero i funerali di due dei più longevi dittatori africani, i predecessori di Camara, gli ex presidenti Ahmed Sékou Touré e Lansana Conté. Una mattanza, una vera caccia all’uomo che secondo i racconti di chi è scampato si è estesa alle strade intorno allo stadio, alle case dove i partecipanti alla manifestazione avevano trovato rifugio, che si è trasformata in barbarie, in aggressioni, pestaggi e violenze sessuali.

Una repressione feroce, avvenuta all'interno dello stadio, contro uomini e donne arrivati da ogni angolo del Paese, contro una folla che non si era fatta intimidire dall’assedio organizzato dall’esercito ma che si dovuta piegare di fronte ai machete, ai bastoni e ai fucili dei militari che sparavano a vista. E’ questa la Guinea del Capitano Camara, l’uomo che lo scorso anno ha preso il potere con colpo di stato e che a distanza di un anno, dopo aver insanguinato le strade, è riapparso in televisione cercando di negare l’evidenza dei fatti, minimizzando gli effetti di un’azione efferata e scaricando le responsabilità di quanto accaduto su qualche militare che avrebbe perso la testa: “Qualcuno ha esagerato. Hanno perso il controllo, io stesso non sono in grado di controllare tutti i soldati”. Parole che lasciano perplessi, soprattutto perché il Capitano ha ricordato che le autorità non hanno nessuna intenzione di tollerare altre manifestazioni e che ogni forma di assembramento sarebbe stata punita: “Ho dato ordine di intervenire con forza e durezza”.

Moussa Dadis Camara prende il potere il 23 dicembre 2008, sei ore dopo la morte del presidente Lansana Conté, l’uomo che per 24 anni ha guidato il Paese con il pugno di ferro; il golpe, portato a termine grazie alla complicità di un gruppo di giovani ufficiali, viene annunciato alla radio dallo stesso Camara. Sciolte le istituzioni repubblicane e sollevato il presidente dell'Assemblea nazionale, che entro 60 giorni avrebbe dovuto indire nuove elezioni, Camara sospende la Costituzione, si auto-proclama presidente ad interim ed istituisce una giunta composta da 26 militari e 6 civili, il Consiglio Nazionale della Democrazia e dello Sviluppo della Guinea. Primo ministro viene nominato Kabiné Komara, ex direttore dell’African Export Import Bank, un istituto internazionale di credito con sede al Cairo.

Alle proteste della comunità internazionale, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, che promette severe sanzioni, Camara risponde affermando che la situazione è transitoria e che la giunta militare non vuole restare al potere, piuttosto è un organo di garanzia che ha il compito di sovrintendere al ritorno della democrazia, che dovrà avvenire attraverso libere elezioni che dovranno svolgersi entro il gennaio 2010. Parole alle quali il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione Africana non crede e, ad una settimana dal golpe, sospende il Paese da ogni attività dell’organismo, almeno “fino al ritorno all’ordine costituzionale”.

Mentre i principali movimenti di opposizione chiedono di andare alle urne entro la fine del 2009, il capitano parla subito di apertura nei confronti della società civile, dei gruppi religiosi e dei partiti politici. Una mossa che a pochi giorni dal golpe gli permette di fare breccia su quei guineani che, stanchi di decenni di corruzione e della cronica crisi economica in cui versa il Paese, sperano in una vera svolta. Con il referendum del 28 settembre 1958, la Guinea  aveva optando per la piena indipendenza, rifiutando l'ingresso nella Comunità francese; una volontà che Parigi aveva accettato, ma che aveva fatto pagare ai guineani abbandonando il Paese al suo destino e chiudendo l’erogazione degli aiuti previsti per le ex colonie. A livello internazionale Camara trova comunque l’appoggio di Francia e Belgio, le due grandi ex potenze coloniali che nell’Africa francofona difendono gli interessi occidentali.

Finito il regime comunista dell’ispiratore della scelta indipendentista, il presidente Sekou Toure, l’occidente torna in Guinea. Dotato d’immense risorse minerarie, il Paese rappresenta un affare enorme: tra i principali produttori mondiali di bauxite, dispone di miniere di oro, diamanti, uranio e di giacimenti di idrocarburi, individuati ma non ancora sfruttati; ricchezze che con il generale Lansana Contè, non si trasformano in benessere permanente, almeno per i guineani che continuano a patire la mancanza di infrastrutture e di un sano tessuto economico. Aumentano piuttosto i traffici illeciti e la presenza di “predatori”: armi, droga, traffico di clandestini e smaltimenti di scorie tossiche e radioattive provenienti dal Nord del Mondo, un cancro che trasforma Conakry e i mari della Guinea in una vera bomba chimica.

Una mancanza cronica di abitudine alla democrazia, ulteriormente aggravato dal golpe del Capitano Moussa Dadis Camara, il “paladino” della lotta alla corruzione e al narcotraffico che oggi è a capo dello stesso esercito che, all’inizio del 2007, represse nel sangue una delle più grandi proteste popolari mai registrate in Guinea. E’ lo stesso esercito che si è macchiato dei crimini e del massacro del 28 settembre. La continuità sguazza nel sangue.


 



 

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