di Stefania Pavone

I risultati elettorali delle politiche israeliane affermano una tendenza certa: l’avanzata dell’aggregato della destra nelle sue espressioni laiche e religiose. A poco servirà, forse, quell’unico seggio con cui Tzipi Livni ha sopravanzato il leader del Likud Nethanyau. I ventidue giorni dell’offensiva “Piombo fuso” hanno testimoniato, nell’esito del voto, la vittoria del linguaggio della violenza e della guerra senza quartiere contro il popolo palestinese. Il futuro della pace è fosco, avvolto nel buio di un paese la cui campagna elettorale si è svolta tutta sul tema della sicurezza e per nulla sulle questioni sociali che pure urgono nel paese. Secondo molti esperti, l’analisi del voto mostra l’inquietudine di Israele rispetto ai propri leader, una sorta di frustrazione generale verso la classe dirigente del paese. Il consenso compatto sotto cui è avvenuta l’operazione militare a Gaza, non ha saputo nascondere quella frammentazione del quadro politico, nelle cui viscere si sono nutrititi e radicati i toni violenti della destra ultranazionalista di Lieberman. Israele è sempre di più un paese dall’identità critica. Dalla valutazione della composizione del voto, sembra che gli israeliani, dopo l’esaltazione dei giorni di Gaza, siano divenuti più paurosi e in fondo scontenti. E’ sul dorso di questa paura che è maturata la richiesta dell’uomo forte, potente, in grado di allontanare il pericolo del nemico, reale o immaginario che sia. Secondo Barnea, analista di Yedioth Arhonot, la campagna elettorale ha mostrato come “l’establishment dello stato ebraico non incontri i bisogni della società”. E mentre la Livni afferma che la questione della pace non è solo della sinistra, così come il tema della sicurezza non appartiene solo alla destra, il Likud riconferma la volontà di non cedere le alture del Golan, spargendo cenere sul quel processo di pace che i combattimenti di Gaza di questi giorni non fanno che incrinare costantemente.

Al presidente Shimon Peres toccherà presto sbrogliare la matassa intrecciata dell’incertezza politica che avvolge come un’ombra Israele, assegnando l’incarico di formazione del governo ad un leader la cui credibilità internazionale non urti la linea dell’amministrazione Obama. Ma chi la spunterà tra i due falchi, la guerrafondaia Livni e il plurisoldato Nethanyau? La chiave di volta sembra ce l’abbia Liebermann. Con i suoi quindici seggi, egli farebbe la differenza. Nonostante i seggi alla alla Knesset, pare però che Nethanyau non voglia essere ostaggio della destra radicale e punti dunque ad una grande coalizione che aggreghi al suo interno elementi moderati.

Intanto, pullulano gli incontri tra i leaders dei vari partiti. La Livni avrebbe promesso a Liebermann riforme elettorali e un governo presidenziale come egli ha sempre chiesto, nonché l’incarico di Ministro delle Finanze. Alla ricerca della grande coalizione, anche Nethanyau, a colloquio con i partiti minori e con lo stesso Lieberman. Intanto Ehud Barak, che, grazie alla guerra di Gaza, ha avuto più seggi di quelli che egli stesso pensasse, afferma di voler stare all’opposizione rendendo problematica la condizione politica della Livni.

A fare da arbitro nella matassa intrecciata della politica israeliana a pochi giorni dal voto sarà, come sembra chiaro, l’America di Obama. Il colore del nuovo governo, infatti, non passerà solo per le urne: la Casa Bianca vorrà davvero cambiare le indicazioni strategiche che hanno guidato la politica di Bush verso il Medio Oriente come afferma continuamente il nuovo Presidente? In un certo senso, la vittoria della destra è frutto di quella dottrina neocons che ha rinunciato alla diplomazia e vestito di democrazia l’orrore della guerra. Israele guidata dal blocco maggioritario delle destre, così come è emerso dalle urne, sembra improbabile perché isolerebbe dagli effetti benefici della presidenza Obama il paese della stella di David.

Ma il ritorno di mostri che le elezioni hanno generato alla Kensset testimonia la crisi di una nazione che riannoda attorno al patriottismo l’annullamento di ogni volontà di avviare un dialogo di pace con i palestinesi. Nethanyau, Livni e Barak sono gli autori del massacro di Gaza ieri e oggi di una mescolanza ideologica esplosiva che rievoca i peggiori passaggi del totalitarismo, comunque i becchini di qualunque progetto di pace con i palestinesi. Obama ha di che pensare.

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