di Michele Paris

Dopo appena tre settimane dal suo insediamento, il neopresidente degli Stati Uniti ha parzialmente abbandonato quello spirito bipartisan che aveva caratterizzato la sua biennale campagna elettorale e le prime fasi del processo di transizione verso la Casa Bianca. Alle prese con il faticoso cammino parlamentare del suo pacchetto di stimolo ad un’economia in crisi sempre più profonda, Barack Obama ha deciso di abbandonare Washington per cercare il supporto diretto del popolo americano in difficoltà, facendovi ritorno brevemente per tenere la prima conferenza stampa da presidente ed attaccare frontalmente l’opposizione repubblicana. “Il paese non può permettersi di aspettare oltre”, ha ammonito Obama, “e il dialogo con la minoranza al Congresso non può risolversi in un ritorno alle fallimentari politiche economiche degli ultimi otto anni”. Il chiaro rifiuto della deregulation selvaggia, espresso dagli elettori americani nelle presidenziali, sembrava essere stato quasi dimenticato nelle ultime settimane, durante le quali la scena mediatica d’oltreoceano è stata colpevolmente dominata dai repubblicani. Uscito con le ossa rotte dalla consultazione elettorale di novembre, il partito di George W. Bush attraversa infatti un’involuzione che sta portando i propri esponenti rimasti al Congresso – a parte qualche eccezione – su posizioni sempre più conservatrici. In quest’ottica, l’obiettivo più facile a portata di mano è il fallimento dello sforzo della nuova amministrazione nel produrre un intervento efficace che possa quanto meno attenuare gli effetti della recessione in atto.

Nelle sue trasferte in Indiana e in Florida, nonché di fronte ai giornalisti nella capitale, Obama ha così mostrato un’evidente inversione di rotta rispetto al contegno quasi sempre mostrato in precedenza, sottolineando una scelta molto netta da parte della Casa Bianca: la necessità di agire in tempi rapidi deve prevalere – almeno momentaneamente – sulla ricerca dell’unità e dell’accordo a tutti i costi. L’entusiasmo della folla incontrata dal nuovo presidente nelle cittadine di Elkhart (la “capitale del mondo nella costruzione di camper e caravan”) e a Fort Myers, assieme ai sondaggi che indicano tuttora il sostegno degli americani alla sua azione, non sarebbero tuttavia bastati a garantire la sicura approvazione del piano da circa 800 miliardi dollari.

Già il voto alla Camera dei Rappresentanti della scorsa settimana aveva fatto intravedere le difficoltà nel convincere i parlamentari repubblicani ad appoggiare il progetto del presidente. Una versione da 819 miliardi di dollari – in gran parte di spese federali – era infatti uscita dalla Camera bassa con i soli voti della maggioranza democratica. Le speranze di un accordo al Senato – dove erano necessari almeno un pugno di voti dell’opposizione per raggiungere i 60, soglia minima stabilita per ragioni procedurali – sono state allora affidate ad una commissione di democratici e repubblicani moderati che hanno raggiunto un punto d’accordo dopo aver eliminato alcuni capitoli di spesa dal pacchetto Obama. Anche il Senato alla fine ha perciò garantito il via libera alla manovra, diventata ora da 838 miliardi di dollari, con 61 voti favorevoli e 36 contrari. Al voto favorevole di 56 senatori democratici, si è aggiunto quello di tre repubblicani moderati – Arlen Specter, senatore della Pennsylvania, e le senatrici del Maine Susan Collins e Olympia J. Snowe – e di due indipendenti.

Le due versioni licenziate da Camera e Senato hanno alla fine trovato un punto d’incontro nel compromesso trovato al termine di frenetiche trattative tra i leader del Congresso e la Casa Bianca. L’accordo è giunto su una versione finale da 789 miliardi di dollari che dovrebbe essere approvata da entrambi i rami del Parlamento nel fine settimana per approdare sulla scrivania del presidente entro lunedì prossimo. Il pacchetto dovrebbe così contenere 507 miliardi di nuove spese federali e 282 milioni di tagli alle tasse, iniziativa quest’ultima resasi necessaria per convincere una parte dell’opposizione a sostenere l’intero piano. La spinta definitiva ad un provvedimento, che risulterà comunque alla fine molto più leggero rispetto agli intenti iniziali, era stata preannunciata nei giorni precedenti grazie ad un Obama ben deciso a riappropriarsi della scena politica americana per fissare almeno qualche paletto alle richieste provenienti da parte repubblicana.

Dopo aver presieduto al raddoppio del debito pubblico nel corso dell’amministrazione Bush, aveva puntualizzato il presidente, risultava difficile prendere lezioni da parte dei parlamentari oggi all’opposizione circa la presunta eccessiva spesa federale prevista dal piano di rilancio economico. Alcuni senatori repubblicani avevano addirittura bollato il provvedimento come un pacchetto di spesa piuttosto che un pacchetto di stimolo, non cogliendo come, per definizione, quest’ultimo coincida con il primo.

In dubbio c’erano soprattutto 79 miliardi di dollari che la Camera aveva destinato alle casse degli Stati in maggiore affanno (“stabilization fund”), così da permettere alle amministrazioni locali di continuare a garantire l’assistenza e i servizi basilari ad una popolazione americana colpita da un tasso di disoccupazione sempre più vicino alla doppia cifra. Tra le critiche sollevate da sindaci e governatori di ogni schieramento, il Senato aveva ridotto tali aiuti a 39 miliardi, minacciando di peggiorare notevolmente la situazione di molti Stati che navigano in acque molto pericolose dal punto di vista finanziario, California in primis. La versione definitiva ha alla fine fissato il fondo a 54 miliardi di dollari.

Altri capitoli di spesa sono poi svaniti nel nulla a tutto favore di nuovi tagli al carico fiscale, vero cavallo di battaglia dei repubblicani, nonostante la loro dubbia efficacia nello stimolare la spesa. Nessuna traccia così di quasi 20 miliardi di dollari assegnati inizialmente dalla Camera alla costruzione e all’ammodernamento delle scuole. Inseriti invece poco meno di 70 miliardi che esenteranno milioni di famiglie della middle-class dal pagare alcune tasse nel 2009. Ridotti drasticamente poi anche gli interventi diretti a sostenere l’assistenza sanitaria per quanti hanno perso il proprio posto di lavoro ed altri ammortizzatori sociali per un totale di svariate decine di miliardi di dollari. Dentro, al contrario, un rimborso fiscale per chi acquista una nuova casa, aiuto però che non si limita alla sola prima abitazione, così da favorire verosimilmente i redditi più elevati.

Le resistenze al piano Obama di molti parlamentari dell’opposizione si sono inserite nell’ambito di una persistente faziosità tra i due schieramenti al Campidoglio. Nonostante le aperture del neopresidente, protagonista nei giorni precedenti di svariati incontro alla Casa Bianca con membri repubblicani del Congresso e la scelta di tre repubblicani nella formazione del proprio gabinetto (Robert M. Gates alla Difesa, Ray LaHood ai Trasporti e recentemente Judd Gregg al Commercio), diffuse sono state le lamentele circa la mancanza di un effettivo coinvolgimento nel dibattito intorno al pacchetto di stimolo all’economia di deputati e senatori di minoranza, i quali infatti in grandissima parte lo hanno respinto in aula.

L’insistenza di Obama per troppo tempo sull’esigenza di costruire un largo consenso intorno al suo progetto ha finito, secondo alcuni, per generare un pacchetto che rischia di essere scarsamente efficace e troppo sbilanciato sul versante dei tagli alle tasse. Il suo atteggiamento, inizialmente mirato a conquistare non meno di 80 voti al Senato, non ha tuttavia prodotto gli effetti auspicati e il compromesso che ne è uscito – peraltro approvato in prima istanza con i soli voti democratici alla Camera e con una maggioranza risicata al Senato – contiene in maniera eccessiva la spesa pubblica che sarebbe invece necessaria per dare un impulso immediato all’economia.

La vicenda del cosiddetto “stimulus bill” sta in definitiva dimostrando fin troppo chiaramente le difficoltà che Obama incontrerà nel suo cammino verso il cambiamento – in questo caso diretto al superamento del settarismo di Washington – in un clima politico dai comportamenti consolidati da decennali divisioni tra i due schieramenti. È pur vero tuttavia che la disponibilità al confronto del nuovo presidente contrasta radicalmente con l’unilateralismo del suo predecessore e che, come lui stesso ha affermato, potrebbe dare i suoi frutti a lungo termine. Una volta superato lo scoglio del pacchetto di stimolo però, le effettive possibilità di un dialogo bipartisan tra democratici e repubblicani saranno messe nuovamente a dura prova da almeno due questioni all’orizzonte che dovrebbero rappresentare altrettanti punti qualificanti della presidenza Obama: la riforma del sistema sanitario e il passaggio a fonti di energia pulita.

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