di Eugenio Roscini Vitali

Dopo un mese di trattative Hamas ed Israele hanno raggiunto l’accordo per un cessate il fuoco duraturo, una tregua di diciotto mesi che prevede la riapertura di sei varchi di accesso alla Striscia di Gaza, la fine delle attività militari e la conseguente interruzione del lancio di razzi su Israele. L’unica incertezza rimane la gestione del contestato valico di Rafah, l’area indicata dai servizi segreti israeliani come canale i rifornimento per l’arsenale dei gruppi estremisti palestinesi e teatro nel 2008 di una rivolta che portò all’abbattimento del muro di metallo alto otto metri che separa l’Egitto dal territorio palestinese. Oltre alla comune volontà di pace e alle pressioni della comunità internazionale, l’intesa è stata finalizzata anche a causa della critica situazione politica israeliana, dovuta all’incertezza causata dalla difficile creazione di una coalizione di governo, e la necessità di dare il via alla ricostruzione della Striscia, risultato essenziale perché Hamas veda legittimata la sua posizione all’interno dei Territori palestinesi. Mentre a New York la comunità ebraica manifesta per il diritto palestinese all’autodeterminazione e protesta contro le inumane condizioni di vita degli abitanti di Gaza, a Tel Aviv si continua a lavorare sulla formazione di un nuovo esecutivo e il conseguente futuro rapporto con gli arabi. Complessivamente i partiti di destra e quelli religiosi hanno ottenuto 64 seggi, contro i 56 ottenuti del gruppo formato dal centro-sinistra e dalle formazioni arabe; con questi numeri Kadima, che ha vinto le elezioni con un solo seggio di vantaggio sulla destra nazionalista del Likud, non è in grado di formare un governo. A questo si aggiunge un sistema elettorale che, in un’ottica estremamente democratica, ha una bassissima soglia di sbarramento e quindi riproduce la complessità di una società estremamente frammentata.

Per formare la nuova coalizione di maggioranza diventano quindi importanti i partiti minori, che però possono influire in modo determinante nelle strategie e nelle logiche di governo. Soprattutto in Israele, dove le alleanze non si costruiscono solo sulle politiche sociali o su quelle economiche, sui problemi legati al mondo del lavoro o alla sanità, ma si concentrano soprattutto su come affrontare il problema israelo-palestinese: il doppio Stato, l’integrazione della minoranza araba, gli insediamenti, il futuro di Gerusalemme e il rapporto con i coloni. Benyamin Netanyahu e Tzipi Livni su questi temi hanno punti di vista sostanzialmente diversi e questo influisce in modo determinante sulla formazione del gabinetto.

Le soluzioni non sono tante e più o meno sono tutte difficili: creare un governo di unità nazionale che mette insieme Likud, Kadima, Laburisti e i maggiori partiti religiosi e sionisti, cosa poco probabile perché metterebbe la Livni nelle condizioni di essere al traino della destra, perdendo così i consensi ottenuti dalla sinistra liberista; alternanza per la carica di primo ministro tra Livni e Netanyahu, come accadde nel 1984 tra Shimon Peres e Yitzhak Shamir, unico caso di un governo israeliano a “rotazione” che comunque non assicura continuità di programmi; cedere ad alleanze scomode come quella del Likud con la destra nazionalista del Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman, cosa che fa storcere il naso a molti elettori di Netanyahu, o quella di Kadima con lo Shas di Eli Yishai, che però obbligherebbe la Livni a rinunciare a questioni sociali progressiste come il matrimonio civile.

Sull’altro fronte la situazione è altrettanto difficile. Il Cairo si è rivelato determinante durante il negoziato che ha portato all’interruzione delle ostilità, ma la frettolosa firma della tregua indica che all’interno di Hamas c’è una certa preoccupazione sul futuro politico di Israele. Probabilmente legato all’inconcludente operazione Piombo fuso, lo spostamento a destra non lascia infatti spazio e grandi prospettive per un negoziato di pace che comprenda la partecipazione del movimento islamico ed è stato quindi necessario sfruttare gli ultimi giorni di transizione prima che in Israele si faccia avanti un fronte meno disponibile e magari meno disposto a trattare. Soprattutto perché Hamas sa che all’interno della Striscia operano diverse frange estremiste che cercano di alimentare lo scontro con Gerusalemme, come quelle che hanno cercato di far naufragare la tregua effettuando il lancio di due razzi Qassam su Sderot, attacco al quale gli israeliani hanno risposto con un raid aereo che ha causato un morto e i tre feriti.

Anche in Cisgiordania si guarda con apprensione alla formazione del nuovo governo israeliano, preoccupati soprattutto del fatto che Netanyahu ha già dichiarato che non ha nessuna intenzione di lasciare i Territori ad est di Gerusalemme e tanto meno mettere fine alla politica di colonizzazione e di espansione degli insediamenti. A questo punto il vero elemento stabilizzante della politica israeliana e della questione palestinese diventa la nuova amministrazione americana, perché è chiaro che palestinesi ed israeliani non può vivere in uno stato di eterno conflitto e che comunque, senza una spinta esterna, gli attori locali non sono in grado di dare forma ad una iniziativa politica credibile e duratura. Il primo passo? La liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit, nelle mani di Hamas dal giugno 2006, e il rilascio di circa mille prigionieri palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane; o la riapertura del valico di Rafah, sottoposto al controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese e di un contingente di osservatori europei, come previsto da un accordo del 2005.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy