di Valentina Laviola

Manca ormai pochissimo all’elezione del quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti e per l’influenza enorme che questo Paese ha sulle sorti globali, in molti rimangono col fiato sospeso. Ora che la campagna elettorale dovrebbe aver dato i suoi frutti, si possono tirare le somme e proporre delle riflessioni sulle scelte operate dai due candidati nel coinvolgimento (mancato) delle comunità arabe e musulmane d’America. Pur trattandosi di minoranze, l’approccio alla questione non manca di portare con sé implicazioni enormi, legate agli eventi dell’11 Settembre 2001, alle recenti guerre in Afghanistan ed Iraq, alla diffusa ideologia, largamente prodotta dall’amministrazione Bush, che vede nell’Islam principalmente, e spesso solamente, il nemico. In che modo risponderanno, nelle nuove elezioni, i cittadini americani di etnia araba o di fede musulmana? Sembra che essi si siano sentiti quasi completamente esclusi dal fermento politico degli ultimi mesi, sostanzialmente ignorati da entrambi i candidati. Insomma, non sono stati considerati un serbatoio di voti sufficientemente appetibile da correre il rischio di pronunciare dichiarazioni che avrebbero potuto far tremare sostenitori ben più potenti. Si stima che i musulmani negli Stati Uniti siano circa 8 milioni e l’Islam è la religione con il più rapido tasso di crescita; gli arabi, in particolare, sono circa 3.5 milioni, un numero non del tutto trascurabile di potenziali indecisi. Il loro contributo potrebbe risultare utile all’una o all’altra parte per delineare le sorti di quegli Stati “ballerini”. Esiste, ad esempio, una radicata comunità somala in Minnesota: lì, nel 2007, è stato eletto il primo rappresentante musulmano del Congresso Americano, Keith Ellison. Sostenitore di Obama, si è fatto portavoce della frustrazione dilagante e si è speso perché si ponesse una maggiore attenzione al coinvolgimento nella politica di queste comunità.

Accanto agli arabi e musulmani arrivati negli USA in epoca più recente, in seguito a fenomeni di emigrazione, emergono oggi studi sugli schiavi africani deportati in America che testimoniano l’alto numero di musulmani fra essi, circa un terzo. Nasce a Chicago, sede della più vasta comunità afro-americana islamica del Paese, un museo che ripercorre in qualche modo la storia dei loro avi e porta alla luce quella porzione di radici musulmane d’America. Sembra insomma che i musulmani americani di oggi cerchino un maggiore riconoscimento in positivo della loro presenza, vogliano cioè sentirsi davvero appartenenti a quel che considerano ormai il loro Paese, gli Stati Uniti.

Per questa ragione, diverse associazioni che si battono contro la discriminazione degli arabo-americani si stanno mobilitando per prendere precauzioni affinché i voti di questa parte della popolazione non vadano sprecati come spesso è accaduto. Con l’aiuto di gruppi di avvocati illustrano il funzionamento del sistema elettorale, fugano dubbi, falsità ed intimidazioni varie che portano molti ad astenersi. Sembra che circolino con facilità bugie, le più diverse, su presunte limitazioni (riguardanti le capacità linguistiche o le condizioni economiche) che impedirebbero loro il voto. Altri sono intimoriti al ricordo di certi episodi come quello occorso nel 1999 a Hamtramck, Michigan, quando, in occasione delle elezioni municipali, a decine di arabo-americani dalla pelle scura venne chiesto un giuramento di cittadinanza prima di votare. Per contrastare questi fenomeni, centinaia di volontari interni alla comunità stessa fanno propaganda per l’uno o per l’altro candidato, soprattutto si impegnano per far sì che la gente si iscriva nelle liste elettorali. È nata così la “Yalla Vote Campaign”, dimostrazione del fatto che la volontà di partecipazione non mancherebbe, se sostenuta.

Generalmente, si pensa che il voto degli immigrati, provenienti quasi sempre da società più tradizionaliste, tende ad essere incassato dai repubblicani per concordanza su temi etici e valori, ma a controbilanciare va considerata la maggior apertura del partito democratico in quanto a politiche d’accoglienza e tolleranza religiosa; è inutile negare che il prossimo 4 novembre anche l’elemento razziale (mai intervenuto prima, dato che ci troviamo di fronte al primo candidato nero della storia) potrà giocare la sua parte. Un sondaggio dell’Arab-American Institute ha riscontrato una preferenza del 54% per Obama, contro il 33% per McCain, mentre il 20% continua a non far capo a nessun partito politico. È certo che mentre ci si preoccupa di parlare ad altre, certo più numerose, comunità etniche facenti parte del puzzle USA, quella araba sembra non essere stata raggiunta, né cercata purtroppo, tant’è che l’Arab-American Political Action Committee non si è schierato ufficialmente, né nessun candidato ha chiesto il suo supporto.

C’è amarezza rispetto ad alcuni episodi occorsi durante la campagna elettorale: quando McCain ha redarguito alcuni suoi sostenitori che avevano chiamato Obama “arab”, precisando che il suo avversario era invece “a decent family man”, in quello che a lui dev’essere parso un moto di correttezza politica. Ovviamente, la comunità araba si è offesa per il testo sottinteso: ovvero che un “arab”, al contrario, non può essere definito “a decent family man”. L’incidente diplomatico si è sfiorato anche a Detroit, quando dei volontari al seguito di Obama impedirono a due donne velate di sedersi in prima fila ed apparire quindi accanto al candidato democratico. La vicenda finì su tutti i giornali e venne risolta con una telefonata di scuse e l’impegno a combattere questi atti discriminatori; la piena soddisfazione delle due signore venne pubblicamente espressa in una dichiarazione al New York Times nella quale accettavano le scuse e assicuravano che avrebbero continuato a sostenere Obama come prima.

Al di là delle vicende finite sotto i riflettori, però, la maggioranza dei musulmani, dopo l’entusiasmo della prima ora per un candidato che sembrava poter offrire maggiore tolleranza religiosa e diplomazia negli affari esteri, appare oggi un po’delusa. Obama ha cercato proseliti comparendo all’interno di chiese e sinagoghe, ma ha evitato luoghi legati all’Islam e l’unico incontro che si è riusciti ad organizzare con il leader di una moschea del Michigan è avvenuto in forma privata. D’altra parte, dagli uffici del senatore dell’Illinois cercano di sottolineare l’approccio interreligioso di inclusione emerso dai suoi discorsi.

Certo, osservando la situazione dall’esterno e con la necessaria dose di cinismo, appare evidente che i rischi che un candidato alla Casa Bianca può permettersi di correre, in un momento in cui la sola parola “arabo” suona come una bestemmia, sono ben limitati, specialmente per uno che proviene da una famiglia mista e che è stato accusato più volte di essere segretamente musulmano, anti-americano, perfino simpatizzante di al-Qaeda. Tuttavia, se risulta comprensibile la cautela in periodo di campagna elettorale, un Presidente degli Stati Uniti che intenda proporre davvero un cambiamento apprezzabile, non potrà esimersi, se eletto, dal trovare una via di compromesso che riabiliti la popolazione americana di fede islamica nell’immaginario dell’opinione pubblica: il rischio dell’emarginazione sì che sarebbe davvero insostenibile.


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