di Saverio Monno

Ogni quattro anni la corsa alla presidenza degli Stati Uniti ripropone, pedante, un copione che, dai tempi della dichiarazione d’Indipendenza ad oggi, non ha subito sostanziali modifiche. “Una sceneggiatura in quattro atti e due protagonisti”, questo l’elemento distintivo di un sistema elettorale reso complesso, non tanto dalla forma federale dello Stato, quanto da una visione segnatamente aristocratica della democrazia, com’era nello spirito dei padri costituenti alla fine del ‘700. L’elezione del presidente costituisce il momento più importante nella vita politica statunitense: l’Inquilino della Casa Bianca infatti, ricopre sia la funzione di Capo dello Stato, sia quella di Presidente del Consiglio dei Ministri e rappresenta, dunque, l’espressione più compiuta del potere esecutivo. Ma a dispetto delle rilevanti prerogative ad esso riservate, la procedura che conduce alla nomina della carica più prestigiosa dell’ordinamento statale, è soggetta ad un sistema elettorale indiretto, che non garantisce l’effettivo esercizio del diritto di voto. Nell’ottica di una democrazia smaccatamente elitaria, infatti, i cittadini americani non solo non eleggono personalmente il loro presidente, contentandosi invece di offrire il proprio sostegno ad una lista di “grandi elettori” a lui associati, ma nel momento in cui decidono di accedere alla procedura elettorale sono tenuti (pena l’esclusione dal voto) a presentare domanda d’iscrizione in apposite “liste elettorali” ed a fronteggiare le insidie di un iter burocratico intricato e non gratuito.

Alle tare che infagottano l’esercizio del diritto di voto, si sommano quelle inerenti il sistema delle candidature (elettorato passivo). La Costituzione si limita a prescrivere che il futuro presidente sia cittadino americano per nascita, risieda negli Stati Uniti da oltre quattordici anni ed abbia compiuto almeno i trentacinque anni di età. Poi, in ossequio a quanto stabilito dal XXII emendamento alla Carta costituzionale, nessun candidato può accedere ad un terzo mandato presidenziale. Ma i meccanismi che regolano in modo circostanziato la corsa alla Casa Bianca non sono specificati, tanto in ambito costituzionale quanto in norme statali e federali, le quali aprono la strada ad un procedimento macchinoso ed intrecciato.

La procedura elettorale può avere inizio anche due o tre anni prima delle elezioni. In questa prima fase, i candidati s’impegnano nella ricerca di consensi all’interno del proprio partito, con l’obiettivo di riuscire ad ottenere la candidatura ufficiale del partito stesso (nomination) in sede di Congresso Nazionale. In seguito, nei mesi di febbraio e marzo, nei diversi stati dell’Unione ogni partito propone proprie elezioni primarie, al fine di nominare dei “delegati” che, una volta eletti, andranno alle convention estive del partito esprimendo un voto per il loro candidato. Il senso delle primarie è tutto qui: chi ottiene più delegati ottiene l’investitura ufficiale di candidato alla presidenza.

E’ in questa seconda lunga fase che avviene una vera e propria “scrematura” delle candidature, ma è anche questo il momento in cui l’eterogeneità del sistema federale inizia a complicare notevolmente la competizione. Le regole delle primarie, infatti, variano di stato in stato e di partito in partito. Ad evidenziare ancor di più le disomogeneità del sistema, i partiti in lizza (tradizionalmente quello Democratico e quello Repubblicano) assegnano a ciascuno stato un certo numero di seggi per i propri delegati, secondo canoni di distribuzione che seguono criteri sia demografici (gli stati più densamente popolati ottengono un maggior numero di seggi) che politici (gli stati in cui nelle ultime elezioni il partito ha ricevuto maggiori successi ottengono una quantità superiore di seggi).

Generalmente i votanti - spesso si tratta di primarie interne ai partiti dunque aperte esclusivamente agli iscritti, solo in alcuni stati il meccanismo è rivolto all’intera popolazione - sono chiamati ad esprimere la propria preferenza per gli aspiranti delegati, ma succede anche che sia possibile votare direttamente il proprio candidato alla presidenza. In alternativa a questi due casi la scelta dei delegati alle Convention Nazionali è affidata a particolari assemblee dette Caucus. Queste sono caratterizzate da un sistema “stratificato”, in virtù del quale gli attivisti locali, operanti a livello di distretto elettorale, selezionano i delegati del partito per i comizi provinciali, che a loro volta selezionano i delegati per i comizi a livello statale, che a loro volta selezionano quelli per la Convention Nazionale.

Durante l’estate, archiviata la fase delle primarie, le Convention Nazionali dei partiti riuniscono i delegati eletti nei 50 stati più il “District of Columbia”, per designare a maggioranza il proprio candidato alla presidenza. Il compito poi, di queste colorite assemblee è quello di preparare le “piattaforme politiche” dei partiti, ovvero i documenti programmatici a cui i candidati fanno riferimento nei quasi due mesi di campagna che precedono l’Election Day. Sul solco di questa tradizione secolare, anche le scelte, quest’estate, di Barack Obama, al termine di una lunghissima ed estenuante sfida con Hillary Clinton durante le primarie del Partito Democratico, e del repubblicano John McCain.

Al termine delle Convention la partita entra nel vivo. Interminabili riunioni tra i candidati e le rispettive squadre di consiglieri, cercano di mettere a punto la strategia da seguire in campagna. Si preparano gli slogan, si decidono gli Stati-chiave su cui concentrare gli sforzi, vengono prodotti gli spot pubblicitari, si tracciano i bilanci economici e vengono intensificate le campagne per l’iscrizione nelle liste elettorali. Inizia tutta una serie di viaggi che porta i candidati a spostarsi da un capo all’altro del paese per incontri, conferenze e dibattiti di ogni tipo. Lunghe trasferte alla ricerca di un appoggio attivo da parte dei simpatizzanti del partito o di qualunque altro escamotage possa portare gli elettori a convincersi della bontà del proprio programma. Incomincia la guerra dei sondaggi, i punti di forza e di debolezza dei candidati sono spiattellati a destra e a manca, non esistendo, nel Paese, alcun limite alla possibilità di effettuare e diffondere informazioni di tipo statistico in materia elettorale.

Per quel che riguarda i finanziamenti invece, altro nodo cruciale nella corsa alla presidenza, una legge del 1971, nella versione emendata, fissa dei limiti alle spese ed ai contributi e, a certe condizioni, prevede il finanziamento federale di parte dei costi delle elezioni primarie e dell’intero costo delle elezioni generali. Una parte importante dei contributi governativi proviene dal “fondo per le elezioni presidenziali” che i contribuenti finanziano dichiarandosi disponibili a destinarvi la somma di un dollaro, o due nel caso di attestazione comune di due coniugi, all’atto della dichiarazione dei redditi.

Ciascun candidato ha poi, la possibilità di ricevere ulteriori sussidi attraverso i “Political Action Committees” (PAC), unioni di aziende private, sindacati, associazioni professionali ed altri gruppi, espressione di particolari categorie socioeconomiche, che s’impegnano a raccogliere fondi fra i loro iscritti e dipendenti, in vista di interessi e convenienze che il futuro presidente potrebbe assicurare per compensare l’aiuto elettorale ricevuto. Moralmente molto discutibile, questa forma di “appoggio economico” non può superare alcune soglie prestabilite, essendo limitata per legge la spesa complessiva che i candidati possono sostenere per la propria campagna elettorale. Nel 2004, solo per rendere l’idea del grande impegno economico che la corsa alla Casa Bianca comporta, i candidati alla presidenza hanno speso 1,2 miliardi di dollari nella campagna elettorale.

Il momento conclusivo di questa enorme marcia politica, mediatica ed economica, è a novembre, con il verdetto che scaturisce dal voto popolare (espresso anche per corrispondenza, possibilità di cui ha scelto di avvalersi lo stesso presidente in carica, G.W.Bush). La data delle elezioni è fissata dalla legge federale per il “primo martedì successivo al primo lunedì di novembre, del quarto anno dopo l’ultima elezione presidenziale”. Quest’anno l’Election Day, come viene chiamato, è fissato per il prossimo 4 novembre. Per quella data milioni di americani si recheranno alle urne per eleggere gli “elettori presidenziali” (o grandi elettori), che eleggeranno a loro volta, il presidente.

Anche in questo caso però, la cosa non è poi così lineare. I voti dei cittadini (detti “voti popolari”) si contano stato per stato, non a livello federale. Colui che vince - anche di uno solo voto - in uno Stato, si prende tutti i grandi elettori in palio in quello stesso stato (parziali eccezioni: i piccoli Maine e Nebraska, che sono suddivisi in collegi elettorali). A questo proposito occorre sapere che, ogni stato, piccolo o grande che sia, ha diritto a due elettori presidenziali più tanti altri quanti sono i deputati inviati alla Camera dei rappresentanti. I deputati alla Camera sono attribuiti grossomodo secondo la popolazione, quindi gli Stati più grandi ne hanno di più. Così i piccoli Stati sono relativamente sovra rappresentati rispetto alla popolazione: il Vermont (circa 600.000 abitanti) ha 3 “voti elettorali” e la California (35.000.000) ne ha 55.

Questo comporta singolari conseguenze politiche. Considerato infatti che il collegio di Washington si compone di 538 grandi elettori e che chi riesce a far eleggere almeno 270 grandi elettori finisce alla Casa Bianca, può accadere (com’è avvenuto nel 2000 con l’elezione di G.W.Bush) che il presidente eletto ottenga, in realtà, una quantità di voti popolari nettamente inferiori allo “sconfitto”. Ipotesi quantomeno sconveniente per un Paese che sostiene di esportare democrazia.

Non essendoci un “Viminale” che fornisca e certifichi i risultati a livello nazionale, la notte elettorale si passa in attesa dei risultati dei singoli Stati. Le diverse catene televisive (ma ormai anche i quotidiani con i loro siti web) valutano exit poll, proiezioni e poi i dati effettivi e attribuiscono -secondo i loro calcoli- uno Stato a un contendente o a un altro, via via colorando di blu (per i democratici) e di rosso (per i repubblicani) le cartine del Paese. In attesa di sapere che colore prevarrà, sulle cartine americane nella notte tra il 4 ed il 5 novembre, non ci resta che attendere, con le dita incrociate.

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