di mazzetta

Con le dimissioni di Pervez Musharraf da presidente, si apre una nuova era per il Pakistan, non necessariamente migliore di quella conclusa con l'abbandono del potere conquistato nel 1999 con un colpo di stato. Musharraf non è stato il populista che ha incantato le folle e nemmeno è stato latore di particolari innovazioni ideologiche, ma piuttosto il rappresentante di una casta militare che si ritiene custode della repubblica pachistana, non diversamente che in Turchia. Buon amico degli USA, Musharraf emerge come capo dei temibili servizi pachistani (ISI) e prima ancora come loro comandante sul terreno afgano, durante la guerra per procura all'occupante sovietico. Sono gli anni nei quali al suo comando c'è un saudita destinato a diventare famoso: Osama Bin Laden. L'esercito pachistano è uno Stato nello Stato. Fin dalla fondazione del paese, allora diviso in East e West Pakistan dopo lo smembramento dell'impero coloniale britannico in Asia, ha assunto la tutela del paese contando su due fondamentali sostegni esterni, quello militare fornito dagli Stati Uniti e in misura minore dalla Cina, e quello economico assicurato dall'Arabia Saudita. Il legame con gli americani risale ai tempi dell'indipendenza, quando cercando di affrancarsi dall'influenza coloniale i generali saltarono dalla pentola britannica alla rovente brace americana. Perno dell'anticomunismo in Asia meridionale, insieme all'Iran della monarchia Pahlevi, l'esercito pachistano ebbe licenza di uccidere dai governi statunitensi. Lo testimoniano le minute dei discorsi tra Nixon e Kissinger, recentemente pubblicate. Il dinamico duo riteneva pericolosi gli infidi indiani e per questo non esitò ad autorizzare il generale Yaya ad invadere l'East Pakistan (ora Bangleadesh) e a uccidere tre milioni di pachistani. Non deve quindi meravigliare che il tramonto di Bush coincida con la temporanea eclissi dei generali. Da allora le fortune dell'esercito pachistano sono state legate ai governi americani di segno repubblicano. Grandi fortune durante gli anni di Reagan e Bush I, periodi in ribasso durante le amministrazioni Carter e Clinton. Proprio durante il periodo di distanza precedente alla presidenza di Bush II, i militari pachistani hanno ballato da soli, ponendo le basi di quella che sarà la grande War on terror. Nel 1998, di fronte ad una amministrazione Clinton che spinge Benhazir Bhutto a prendere controllo del programma nucleare, i generali prendono il potere e rispondono palesando il segreto di Pulcinella: il Pakistan è una potenza atomica.

Con i finanziamenti di Iran, Libia ed Arabia Saudita e la collaborazione tecnica di molti paesi, anche occidentali, il programma per la “bomba atomica islamica” è giunto a completamento senza essere mai ostacolato dalle amministrazioni repubblicane, convinte che le atomiche degli amici islamici, come quelle degli amici ebraici, sarebbero state di grande giovamento nel bilanciare quelle “comuniste” o quelle indù. Quando nel 2003 si “scoprirà” che il Pakistan ha fornito materiali e ordigni nucleari proprio a Libia, Iran ed Arabia Saudita, la circostanza sarà passata in silenzio, visti gli (allora) ottimi rapporti con i tre paesi in questione. In quell’occasione Musharraf darà il meglio alla televisione, indicando lo scienziato A. Q. Kahn, padre della bomba atomica pachistana, come responsabile del traffico nucleare e, durante la stessa seguitissima trasmissione, annunciando di averlo “perdonato perché così chiedeva il popolo. Consequenziale la decisione di impedire qualsiasi interrogatorio di ufficiali o scienziati pachistani, con gli Stati Uniti che hanno dovuto ingoiare questa farsa, presto passata nel dimenticatoio. Dalla cacciata dei sovietici le istanze dei radicali accorsi alla liberazione dell'Afghanistan si materializzano nel governo dei Talebani prima e nelle minacce alle corrotte monarchie del Golfo poi. L'occidente e gli Stati Uniti in particolare diventano il nemico da sconfiggere dopo l'ateismo sovietico. L'accusa è la stessa: colonialismo. Di questo gli Usa non si curarono per lungo tempo, troppo assorti nell'ordire intrighi per influenzare lo scacchiere europeo.

Quando un gruppo di pakistani e sauditi mise a segno gli attentati dell'undici settembre 2001, il leader pachistano si trovò forse sulla più scomoda poltrona del pianeta. Quasi la metà dell'esercito pachistano era ed è vicino all'islamismo più radicale e, quando l'amministrazione americana gli ingiunse di collaborare pena “riportare il paese all'età della pietra”, seppe fare la cosa giusta ed assentire. Come lui fecero molti altri autocrati: tutti collaborarono con Washington contro i sovversivi qaedisti, dalla Siria, alla Libia, fino all'Iran, che giunse a supportare materialmente le invasioni di Iraq ed Afghanistan; non esistevano alternative e nemmeno gli “islamici” se ne scandalizzarono. Otto anni di equilibrismi che hanno dimostrano l'acume e l'applicazione di un uomo che è riuscito a rimanere al potere a cavallo di Bin Laden e Bush mentre sfuggiva a più di un attentato all'anno.

C'è riuscito fino all'anno scorso, quando di fronte al fallimento del sesto anno d’occupazione dell'Afghanistan, Washington pensò di cercare un capro espiatorio diverso da Bush. Musharraf era accusato di fare il doppio gioco, accusa alimentata da una pantomima destinata a ripetersi ogni anno. Puntualmente, a primavera l'esercito pachistano assale le zone ad amministrazione tribale del Waziristan. Gli scontri finiscono regolarmente male per l'esercito, che “però” tornò a casa con un accordo secondo il quale i waziri si impegnavano a cacciare e non assistere i “terroristi” e i talebani. Formalmente buono per Washington e in realtà ottimo per i talebani, che si assicurarono la tranquillità in Pakistan e anche il denaro concesso ai capi tribali per fare loro siglare l'accordo. L'esercito pachistano non ha mancato di fornire il suo contributo alla destabilizzazione dell'Afghanistan, che secondo la dottrina militare che si è dato, dovrebbe essere zona d'influenza esclusiva. Tanto hanno fatto che hanno fatto piangere il presidente afgano Karzai, apparso in lacrime alla televisione ad accusare i bruti. Umiliante è vedere oggi l'India entrare nelle grazie di Washington, ma ancora di più lo è vedere l'India preferita dai “fratelli” afgani. Purtroppo per tutti, il Pakistan non ha resistito al divenire a sua volta terreno quotidiano di scontro armato. Alla lunga i continui cambiamenti di fronte sono valsi a Musharraf l'ostilità degli antichi amici, che lo accusano di essere al soldo degli americani e di aver tradito gli interessi e l'onore dei pachistani, facendo la guerra ai fratelli di fede e la pace con cristiani ed indù, ancora accuse di doppio gioco. Dalle province di frontiera fino al Balochistan è montata un'avversione generale contro il governo.

Lo scontro con i radicali islamici ha raggiunto il punto di non ritorno con il massacro della Moschea Rossa dell'anno scorso, moltiplicando la violenza e le occasioni per la sua esplosione. I guerriglieri che per anni hanno presidiato il Kashmir contro gli odiati indù, sono schierati ora sul fronte contro i cristiani e i “nemici interni”. In Afghanistan se ne sono accorti perché sono apparsi sul teatro di guerra quegli stessi mortai che i kashmiri hanno usato per anni contro gli indiani. Gli effetti della globalizzazione imposta al paese hanno poi aggiunto benzina a quella che già era una polveriera. A fronte della tradizionale “crescita” dei corsi azionari che segue le liberalizzazioni, il Paese è sprofondato nella miseria e ha fatto passi da gigante nella classifica degli “stati falliti”. Oggi il Pakistan riesce ad assicurare l'istruzione inferiore solo al 30% dei suoi giovani, non c'è quindi da stupirsi del successo delle scuole coraniche, le uniche in grado di insegnare almeno a leggere e scrivere. Di fronte al rumoreggiare delle plebi affamate e alle critiche domestiche, gli astuti king-maker americani, provati dai giochetti di Musharraf, hanno pensato di offrire ai popoli l'immagine salvifica di Benhazir Bhutto, novella Madonna salvatrice. “Raise the dead” è il nome di questo genere di espediente.

Anche qui per i pachistani si è ripresentata la solita scelta calata dall'alto, tra la padella (Musharraf) e la brace (il partito della Bhutto). Non è chiaro se Musharraf abbia avuto un ruolo nei due attentati contemporanei che uccisero la Bhutto e risparmiarono il rivale Sharif appena rientrati dall'esilio, anche perché erano in troppi ad avere mezzi e motivi per uccidere i due ritornanti. Musharraf sembrò accettare il ritorno dei due ex leader falliti e notoriamente corrotti, preoccupandosi solo di ritagliare per sé il ruolo di presidente una volta smessa la divisa. Per fare questo non esitò a liberarsi dei giudici della Corte Suprema. C'era da graziare e riabilitare i leader rientranti dall'esilio da rendere eleggibile la Bhutto, nonostante la Costituzione ponesse il limite dei due mandati. C'era anche da rendere impunibile l'esercito e lo stesso Musharraf, operazione poco riuscita, dato che alla fine è rimasta aperta la strada per il suo impeachment.

Musharraf ha pesato i voti in Parlamento e di fronte all'inevitabilità della sconfitta ha accettato i “ponti d'oro” che gli erano stati offerti per favorirne la decisione. La sua uscita di scena consegna il Paese a previsioni più che pessimistiche. Al governo c'è il Partito Popolare retto dal marito di Benhazir Bhutto, Alì Zardari, detto “mister 10%” perché quella era la quota che esigeva su ogni contratto pubblico quando la moglie dirigeva il paese. A fornire sostegno esterno è Sharif, il rivale di sempre, con il suo partito-famiglia intitolato all'Islam. A dividere i due c'è tutto, dalla stima reciproca fino a temi caldi come se combattere o meno la guerra dell'Occidente. Nemmeno sulla restaurazione della Corte Costituzionale e del suo presidente Chaudry, fiore all'occhiello delle rispettive campagne elettorali, i due trovano ora un accordo, troppo è il timore che il ritorno dei giudici comporti anche il loro ritorno all'esilio o alla galera. Facile immaginare che i due nomineranno alla presidenza una figura di terza fila e che cercheranno di spartirsi la cosa pubblica senza farsi troppo male. Nessuno dei due sembra intenzionato a guerreggiare con talebani e compatrioti islamisti, nessuno dei due sembra in grado di soddisfare le aspettative statunitensi e ancora meno quelle dei pachistani. Probabilmente si apre ora per il Pakistan un periodo di lunghe negoziazioni attorno al nulla.

Se la storia insegna qualcosa e se la realtà è così deprimente, non diventa troppo difficile indicare il futuro leader pachistano nell'attuale capo dell'esercito, Parvez Kayani succeduto a Musharraf. Si tratta del suo delfino, già a capo dell'ISI e ben educato nelle scuole militari occidentali. Musharraf e gli altri generali hanno affidato a lui il comando militare e con esso il compito di vigilare sul ritorno ad un governo civile. Un'operazione che prelude alla relativa ripulitura dell'immagine dell'esercito, pronto tra pochi anni, se non mesi, a raccogliere i resti di un paese dilaniato da conflitti asprissimi, che ora viene affidato a un debole governo di corrotto, privo di qualsiasi progetto oltre la propria stessa permanenza al potere e l'arricchimento personale. La casta militare resta intoccabile, guardiana della Repubblica, ma soprattutto del dispositivo nucleare.

Numerosi studi statunitensi hanno concluso che gli USA non potrebbero prendere il controllo degli armamenti nucleari pachistani con la forza. La circostanza che tali studi circolino pubblicamente, suggerisce che i militari riceveranno da Musharraf le “chiavi” del nucleare, ora prerogativa presidenziale, che però non sarà certo trasferita al suo successore, essendo gli unici a poter garantire il controllo sull'intero sistema nucleare pachistano. L'arsenale nucleare si rivela così la principale garanzia per l'integrità del potere dell'esercito, dimostrandosi sulla distanza un investimento fruttuoso ben oltre i limiti suggeriti dalla propaganda.


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