di Fabrizio Casari

Fino all’11 settembre del 1973, Augusto Pinochet Ugarte, non era niente di speciale. Un qualunque militare di carriera innamorato di sé e del denaro. Reazionario, certo, ma né più né meno di tanti altri gerarchi militari, sudamericani e non solo. Fascistoide lo era sempre stato, sin da quando, a diciotto anni, decise di entrare nell’Accademia militare. Solo 18 giorni prima della morte della democrazia, il 23 agosto 1973, aveva giurato come Capo di Stato Maggiore dell’Esercito cileno, con un Decreto che si rivelò come uno degli ultimi errori di Salvador Allende. Il legittimo presidente cileno, avvertito dai rumors di malcontento nelle forze armate che avrebbe potuto assumere le sembianze di una rivolta, aveva spostato Carlos Pratt, fino a quel momento Capo dell’esercito, nel ruolo di Ministro dell’Interno del Governo di Unidad Popular. E Pinochet, che dal 1972 aveva il comando ad interim, passò al ruolo che lo rese famoso come il boia del Cile. Tradendo ogni cosa possibile – il suo paese, il suo presidente e l’onore del suo ruolo - il boia si mise alla testa del colpo di stato militare che depose violentemente il governo socialista. All’alba dell’11 settembre, Pinochet fece bombardare dall’aviazione il palazzo della Moneda, la residenza del Presidente della Repubblica. Allende, che rifiutò di arrendersi, resistette armi alla mano insieme alla sua scorta e ad alcuni militari di guardia al palazzo, fino a scegliere il suicidio piuttosto che la resa. Del resto, pochi anni fa, le registrazioni desecretate dei colloqui tra lo stesso Pinochet e il Capo di Stato Maggiore dell’Aereonautica durante l’assedio al palazzo presidenziale, resero evidente a tutti che Pinochet, mentre offriva la resa al Presidente, ordinava all’aviazione di ucciderlo non appena avesse messo piede fuori della Moneda.
Dal 1973, da quella terribile mattina dell’11 settembre, il Cile sprofondò nella vergogna e nella tragedia, nel disonore e nell’infamia.

Partiti e sindacati disciolti, avversari politici eliminati e rastrellamenti nelle strade e nelle case del Cile. Lo stadio di Santiago divenne il simbolo tragico dei rastrellamenti e delle detenzioni di migliaia e migliaia di giovani, colpevoli di essere schierati a sinistra o di non esultare al passaggio dei tanks e dei reparti militari che occupavano le strade di Santiago; o anche, come raccontò un ufficiale della polizia politica, (la famigerata Dina) colpevoli solo di avere capelli lunghi e abbigliamento “da comunisti”. La sinistra si divise tra comunisti e socialisti che non compresero la portata di quello che da mesi si stava preparando e la componente più radicale – il Mir (Movimento de Izquierda Revolucionaria) che, aveva sollecitato contromisure militari. Ma comunque, la sinistra intera, che non aveva avuto né la forza, né la credibilità, per costruire una mobilitazione di massa contro i golpisti, riuscì ad opporre una resistenza armata durata solo poche ore. I reparti militari fedeli alla Costituzione (pochi) vennero tacitati ed i loro vertici militari arrestati e uccisi.

Ebbero inizio 17 drammatici anni di dittatura militare fascista, costellata da morti, torturati, scomparsi ed esiliati. Solo nell’ottobre dello stesso anno, 85 esponenti dei partiti della sinistra e del sindacato vennero fucilati. Il calendario cileno si scandiva ormai con il numero di vittime; innocenti lasciati nelle mani di un apparato repressivo che abbondava di torturatori analfabeti ansiosi di vendicarsi con gli altri delle loro miserabili esistenze. Nel 1975, con migliaia di esiliati e centinaia di scomparsi, la contabilità dei becchini della democrazia cilena si arricchì di un’altra infamia: l’assassinio di 119 oppositori, denominata “Operazione Colombo”.
Stando al “Rapporto Retting” del 1991, in diciassette anni 3197 persone – delle quali 1192 scomparse – furono vittime del modello.

Pinochet, va detto, nonostante le sue criminali megalomanie, altro non fu che un burattino nelle mani degli Stati Uniti. Furono le multinazionali statunitensi del rame e delle comunicazioni – in prima fila la “At&t “– a finanziare il colpo di stato. La regia politica dello stesso fu di Henry Kissinger, all’epoca Segretario di Stato Usa, che diede il via libera di Washington alla mattanza cilena. Il rame, principale prodotto di esportazione del Cile, era stato nazionalizzato dal governo di Unidad Popular e la finanza statunitense ne aveva decretato la sua caduta verticale nella borsa valori di New York, aprendo una crisi economica che sarebbe stata il viatico per la fine. E, come per miracolo, un’ora dopo la presa della Moneda da parte dei militari traditori, lo stesso rame ebbe la più poderosa impennata della storia proprio a Wall Street. Don Pecunia aveva fatto il miracolo. L’ordine regnava a Santiago.

Il ruolo degli Usa fu determinante. Il Cile divenne l’avamposto statunitense in America latina. Washington trovò, nella dittatura cilena, il mix ideale: repressione e affari, modello economico liberista e modello politico fascista. Nel 1975, con l’intento di affogare nel sangue la sinistra di tutto il continente, armata o legale che fosse, gli Stati Uniti chiesero ai regimi militari di Brasile e Uruguay, insieme a Banzer in Bolivia, a Videla in Argentina, a Pinochet in Cile e a Stroessner in Paraguay, di dare vita al “Plan Condor”, il coordinamento tra le polizie segrete del Cono sud che coprì il subcontinente di assassinii e scomparsi. Tutto e tutti agli ordini di Washington, che ribadiva con la spada il suo dominio incontrastato sulle Americhe, con il cui saccheggio continuato di ogni risorsa ha costruito la sua crescita economica in barba al resto del mondo che si dibatteva tra crisi petrolifere e monetarie.

A sostenere l’economia cilena intervenne la scuola dei Chicago boys, i nipotini di Milton Friedman, il padre del monetarismo che trapiantò i suoi dogmi nella Cordigliera, producendo il modello cileno che fu la combinazione di tre elementi: l’arricchimento smisurato delle imprese multinazionali, la crescita poderosa del Pil e l’impoverimento della popolazione che sosteneva i primi due. Pinochet ha regnato da despota per diciassette anni dando sfogo ai suoi impulsi primari: sangue e soldi. Ha accumulato una fortuna finanziaria, frutto delle ruberie con le quali, insieme alla repressione, ha rappresentato la cifra del suo regno ignobile. Il 7 settembre del 1986, il “Frente Patriotico Manuel Rodriguez”, braccio armato dei comunisti cileni, riuscì a centrare con un razzo la macchina blindata di Pinochet, che però riuscì a rimanere pressoché illeso. Ricevette gli auguri di Margareth Tatcher, sua amica leale che per 503 giorni, nel 1998, fu garante del suo rifugio in terra d’Albione, al riparo delle inchieste del giudice spagnolo Baltazar Garzon.
Nel 1989 il suo regno ebbe termine, ma continuò a rappresentare una ipoteca per il paese che lasciava la dittatura ma non trovava ancora la democrazia, collocato in un limbo giuridico mostruoso che i latinoamericani chiamarono democradura.

Da ieri, Pinochet è solo un orrendo ricordo. Non avrà funerali di Stato. Partirà, osannato e pianto dai suoi seguaci, per tornare, semplicemente, nell’inferno dal quale era venuto.






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