di Eugenio Roscini Vitali

Fino ad oggi in Darfur il conflitto ha colpito quattro milioni di civili di cui un milione e ottocentomila di età inferiore ai 18 anni; i profughi sono due milioni e trecentomila, la metà dei quali non sono ancora ragazzi. Tra loro c’è chi lo scorso febbraio ha compiuto cinque anni, figli di un conflitto brutale quanto assurdo, nati e vissuti senza mai aver conosciuto la pace e con pochissime speranze di sopravvivere alla guerra. Negli ultimi due anni i combattimenti hanno provocato 120 mila nuovi “giovani” esuli; nello scorso febbraio gli attacchi messi in atto dai Janjawid, le milizie arabe sostenute dal governo di Khartoum, hanno causato 800 nuovi profughi la cui età varia tra i 12 e i 18 anni. Per la comunità internazionale aprile segna anche un quinquennio di insuccessi, la fallimentare risposta all’escalation di una crisi troppo spesso dimenticata, dove gli scontri etnico-culturali e la politica di arabizzazione di un regime senza scrupoli si sposano perfettamente con gli interessi legati al petrolio e al commercio delle armi. In Darfur i bambini, i ragazzi, le donne e gli anziani rappresentano senza dubbio l’anello più debole della catena, la parte più vulnerabile e più esposta alla violenza che, nonostante la presenza dei Caschi blu giunti in Sudan per sostenere le truppe di pace dell’Unione Africana (Amis), continua a martoriare la popolazione civile. Con la Risoluzione numero 1769 del 31 luglio 2007 il Consiglio di Sicurezza aveva approvato la costituzione della Unamid (United Nations-African Union Mission in Darfur), una “forza ibrida” di 26 mila unità che dal 31 dicembre 2007 avrebbero dovuto sostituire i novemila soldati dell’Amis, in Darfur dal 2004. Con questa decisione l’Onu avrebbe voluto ridare stabilità e sicurezza alla regione ed impedire che la tragedia terminasse di espandersi agli stati limitrofi, Ciad e Repubblica Centrafricana, già provati dal crescente numero di profughi e colpiti da una crisi interna che li tormenta da anni e duramente.

Dopo quattro mesi la missione Unamid non è ancora pienamente operativa: il 9 febbraio scorso Khartoum e i rappresentanti dell’Onu hanno ratificato l’accordo che stabilisce le condizioni nelle quali dovrà operare il contingente, ma al momento il materiale e le risorse umane a disposizione sono ancora inadeguate. Sulla carta in Darfur sarebbero dovuti essere già presenti 19.555 militari, 6.432 forze di polizia e una considerevole componente civile; al 31 gennaio 2008 la missione conta solo 9.080 unità (poco più di quelle fino ad ora in forza all’Amis) di cui 7.156 soldati, 220 osservatori, 1.704 poliziotti e 66 volontari delle Nazioni Unite. Sul terreno la situazione non sembra essere quindi cambiata e i civili che hanno trovato riparo in uno dei 65 campi profughi presenti nella regione e quelli che sono rimasti nei pochi villaggi ancora abitati vivono in una costante situazione di pericolo.

Le agenzie per i diritti umani denunciano che la maggior parte dei bambini coinvolti nelle violenze sono rimasti gravemente traumatizzati da quanto hanno visto; considerevole è anche il numero di quelli rapiti per essere usati come piccoli manovali della guerra o venduti come schiavi. Le sevizie e gli stupri contro le donne non si contano; atti che arrivano a colpire ragazze di undici anni costrette ad allontanarsi per raccogliere la legna o addirittura all’interno degli stessi campi profughi dove l’affollamento e le condizioni promiscuità le rendono particolarmente vulnerabili.

Secondo quanto riportato da Human Right Watch, lo scorso febbraio, durante un attacco portato contro i villaggi di Sirba, Silea e Abu Suruj, le truppe sudanesi e i Janjawid hanno violentato non meno di 10 donne, alcune delle quali appena adolescenti. Un altro caso parla di una di 11 anni seviziata e stuprata da tre uomini mentre stava raccogliendo legna insieme alla sorella più piccola. Per la gravità delle ferite riportate le autorità sono state costrette a trasportarla in elicottero in un ospedale dell’Unione Africana dove è stata poi ricoverata.

I Janjawid usano lo stupro come arma psicologica con la quale puniscono le loro vittime ed umiliano le comunità non musulmane; spesso rapiscono le ragazze per condurle nei loro villaggi dove le tengono prigioniere per mesi. Dalla testimonianza di alcune vittime la violenza contro le donne è anche opera dei soldati dell’esercito sudanese, delle formazioni ribelli e di bande armate di nomadi, veri e propri predatori del deserto che vivono di razzie e del commercio di schiavi. Lo stupro continua anche quando le vittime sporgono denuncia e la polizia preferisce archiviare subito il caso senza dare il via alle indagini, specialmente quando sono coinvolti militari dell’esercito sudanese; molte ragazze preferiscono tacere, soprattutto perché oltre a non avere giustizia verrebbero marchiate dalla stessa comunità come impure, vedendo tramontare così ogni possibilità di matrimonio.

Secondo le Nazioni Unite, in Darfur il conflitto ha già provocato più di 200 mila vittime (alcune fonti non governative parlano di 400 mila morti mentre il regime di Khartoum ne denuncia poco più di novemila). Dopo cinque anni di guerra la tragedia si è trasformata in una vera e propria catastrofe umanitaria, dilagata oltre confine e le cui dimensioni potrebbero essere maggiori di quanto ci è consentito sapere. A periodi caratterizzati da scontri cruenti si alternano pause di relativa calma che però non contribuiscono a migliorare la situazione della popolazione civile che continua a subire ogni sorta di violenza; per ragazze e i bambini gli abusi e gli stupri sono poi una drammatica realtà con la quale fanno i conti tutti i giorni. A questo si aggiungono la disintegrazione del tessuto sociale, lo smembramento delle comunità e la totale assenza di strutture educative, fattori che contribuiscono in modo determinante a bruciare le ultime speranze.


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