di Giovanni Gnazzi

L’approvazione al Senato della legge finanziaria ha scritto in qualche modo la parola “fine” ad una fase politica caratterizzata dalle scommesse sulla tenuta della maggioranza sul passaggio più delicato per ogni esecutivo, l’approvazione della legge di bilancio. Oltre settecento votazioni hanno sancito la tenuta della maggioranza governativa. Dunque il governo, pur incassando l’addio di Lamberto Dini, che presumibilmente cercherà un passaggio sull’altra sponda con i due naufraghi al seguito, potrà rinviare ad altri provvedimenti l’ansia da numeri. Lo spettro dell’esercizio provvisorio, vero e proprio incubo per ogni esecutivo, è stato quindi riportato allo stadio di scampato pericolo. Anzi, il fatto che la Finanziaria sia passata senza dover ricorrere al voto di fiducia, pur potendo contare solo su qualche voto di maggioranza, rappresenta una oggettiva dimostrazione di forza da parte del governo Prodi. Si deve infatti ricordare che il governo Berlusconi, che contava su una maggioranza schiacciante di parlamentari, fu costretto a porre la fiducia per vedere approvata la sua legge di bilancio. Già, Berlusconi. E’ lui il grande sconfitto di questa fase politica. Il suo tentativo di dare una “spallata” al governo Prodi è risultato essere l’ennesimo colpo a vuoto. Ha seguito i precedenti tentativi falliti di “spallate” con il referendum e con le tornate di amministrative. Ma prima che una sconfitta politica, quella di Berlusconi è la disfatta di un leader, la rappresentazione della nudità del re. Lo spettacolo che Berlusconi ha messo in scena nelle scorse settimane è lo specchio avvilente del degrado della politica italiana, con la sua residenza di palazzo Grazioli trasformata in un suk. Nell’indifferenza generale ha provato a comprare senatori, offrendo qualunque cosa pur di poter confermare le sue previsioni circa la data e l’ora nelle quali sarebbe caduto il governo. A metà tra il mago Otelma e l’affarista, Berlusconi ha dimostrato fondamentalmente una cosa: che la sua capacità di attrazione è molto ridotta rispetto al passato e che al suo ritorno a Palazzo Chigi non crede più nessuno, a cominciare dai suoi alleati.

Quello che Berlusconi ha perso, infatti, molto più che l’ennesima battaglia ed un’utile occasione per risparmiarsi figuracce a tutto andare, è stato il riconoscimento indiscusso della sua leadership dai dirigenti della destra italiana. A cominciare da Fini, che con una lettera durissima pubblicata dal Corriere della sera, gli ha dapprima addossato la sconfitta dell’opposizione, rinfacciandogli il posizionamento della destra sul terreno della contrapposizione in aula e, più in generale, sul rifiuto del dialogo con il centrosinistra sulle riforme. Ambedue i passaggi della strategia del Cavaliere hanno, secondo Fini, Casini e la stessa Lega, un difetto di lettura dello scenario presente e futuro del quadro politico italiano.

Checché ne dica Berlusconi, infatti, così come la crisi di consensi dell’Esecutivo non si traduce in aumento di consensi per la Casa delle Libertà – e già questo dovrebbe fornire spunti di riflessione non banali – anche sul piano parlamentare, l’idea di un ritorno alle urne non appare maggioritaria, nonostante le defezioni che colpiscono la maggioranza governativa. Per questo, passato lo scoglio della Finanziaria, la destra non berlusconiana trova terreno fertile per riannodare i fili del dialogo parlamentare con l’Unione sul tema delle riforme, prima fra tutte quella elettorale. I voti in Commissione Affari Costituzionali, del resto, lo avevano già fatto intendere con chiarezza.

La Casa delle Libertà, almeno per come si é manifestata finora, sembra un discorso ormai archiviato per il leader di An, che punta decisamente verso una presa di distanza da Berlusconi, prima che da Forza Italia. E Casini e Bossi, pur con accenti diversi (ma non inconciliabili) con quelli di An sul sistema da scegliere - vedono nell’improcrastinabile riforma del sistema elettorale il percorso che può tenere insieme sia la possibilità di assegnare un quadro di stabilità alle prossime maggioranza di governo, sia il riassetto generale della destra italiana. Riassetto che, al netto delle chiacchiere, si fonda sulla leadership del centrodestra e sulla sua linea politica, anche in considerazione della capacità di attrattiva dei settori moderati che non sceglieranno il PD. Rispetto a Bossi e Casini, Fini ha il vantaggio di poter giocare la carta del referendum elettorale come asso nella manica nelle trattative; anche per questo un ritorno alle urne, che avrebbe impedito lo svolgimento del referendum, non era la strada che An si prefiggeva.

Ma Casini e Bossi possono però contare sull’offerta di dialogo di Veltroni, che prefigura un sistema elettorale sul modello tedesco con venature “spagnole”, che tranquillizzerebbero il Carroccio ed offrirebbero all’Udc il terreno per la ricomposizione democristiana, dal momento che - in assenza di premio di maggioranza – un centro democristiano che viaggiasse tra l’8 e il 10 per cento, potrebbe risultare l’ago della bilancia in un Parlamento inevitabilmente diviso in due. Berlusconi ha reagito alla lettera di Fini sostenendo che, a suo avviso, la Cdl deve rimanere così com’é. Ma la monarchia di Arcore appare in difficoltà. O il regno si avvia verso la successione non dinastica o il cavaliere rischia di essere disarcionato.

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