A poche ore dalle elezioni che dovrebbero stabilire il nome del 47esimo presidente degli Stati Uniti, la corsa tra i candidati dei due principali partiti, Donald Trump e Kamala Harris, sembra essere equilibrata a tal punto da rendere virtualmente inutili i moltissimi sondaggi proposti da istituti specializzati e stampa d’oltreoceano. Quello che invece appare più probabile, secondo molto osservatori, è il rischio di tensioni, dispute, scontri o disordini nel momento in cui verrà annunciato il vincitore o quando uno dei due deciderà di proclamarsi tale in base ai risultati parziali. Entrambi gli schieramenti sembrano infatti avere dei piani per contestare un eventuale esito sfavorevole e soprattutto Trump e la sua squadra potrebbero orchestrare una clamorosa ripetizione della fallita campagna scattata all’indomani del voto del 2020.

Nelle scorse settimane, l’ex presidente repubblicano e i suoi sostenitori hanno intensificato le critiche preventive al sistema elettorale americano, assieme alle denunce di brogli e tentativi di manipolazione delle procedure di voto, così da rendere credibile la tesi di una sconfitta possibile solo in presenza di diffuse irregolarità. È chiaro che Trump e i suoi vogliono preparare il campo per un contrattacco su più fronti in caso di sconfitta, facendo leva sui dubbi inculcati in questa fase nel proprio elettorato circa la regolarità delle operazioni di voto o di spoglio.

 

Particolare attenzione viene rivolta allo stato della Pennsylvania, uno di quelli in bilico tra i due candidati (“swing states”) e con in palio 19 voti elettorali che potrebbero decidere la competizione. Trump ha più volte accusato di brogli le autorità dello stato e il Partito Democratico, in particolare nei giorni scorsi dopo che erano stati segnalati errori relativamente trascurabili o, comunque, presumibilmente risolti in tre distretti elettorali della Pennsylvania.

Episodi di una certa gravità si erano verificati anche la settimana scorsa in tre località degli stati nord-occidentali di Oregon e Washington. In questo caso erano stati incendiati i centri di raccolta delle schede riconsegnate dagli elettori che hanno optato per il voto a distanza. I responsabili degli attacchi non sono stati ancora individuati, ma il sospetto fortissimo è che si sia trattato di un’iniziativa diretta contro una modalità di voto utilizzata statisticamente più dai democratici che dai repubblicani. Il voto anticipato a distanza è d’altra parte uno dei bersagli preferiti di Trump e della destra repubblicana e proprio il discredito di quest’ultimo, perché esposto in teoria più facilmente a manomissioni, è un elemento centrale nella strategia post-elettorale dell’ex presidente.

Lo spoglio delle schede a distanza avviene in genere con un certo ritardo e, visto appunto che gli elettori che votano senza recarsi ai seggi sono in genere in maggioranza democratici, il loro conteggio può modificare i risultati emersi precocemente dopo la tabulazione delle schede di coloro che hanno votato di persona. In Pennsylvania, ad esempio, una legge statale vieta oltretutto agli scrutatori di conteggiare le schede arrivate in anticipo prima dell’Election Day. Anche qui il disegno è facile da intuire. Trump potrebbe dichiarare di avere vinto in Pennsylvania o in un altro stato in equilibrio basandosi sui primi risultati parziali e, in caso di sorpasso da parte della rivale democratica grazie ai voti a distanza, denunciare brogli.

Va inoltre ricordato che l’informatizzazione del voto negli Stati Uniti espone oggettivamente il processo a rischi di manipolazione o intrusioni, anche se nelle precedenti tornate elettorali non sono emerse prove concrete in questo senso. Da un lato, i democratici tendono a minimizzare rischi che in realtà potrebbero materializzarsi, secondo alcuni proprio perché essi stessi potrebbero beneficiarne, mentre Trump e i repubblicani ingigantiscono qualsiasi minimo episodio o voce che rilevi comportamenti irregolari dentro ai seggi.

Il clima di sospetto così creato potrebbe spianare la strada a una strategia d’azione che prevede iniziative legali e politiche sulla falsa riga di quanto tentato inutilmente quattro anni fa. Ci sono tre momenti cruciali nel complicato calendario elettorale americano che segue il voto vero e proprio e conduce alla ratifica del vincitore del voto. Su di essi si sta probabilmente concentrando l’attenzione del team di Trump se nelle prossime settimane dovessero persistere i dubbi sull’esito delle elezioni. La prima data è quella del 17 dicembre, quando i membri eletti del Collegio Elettorale si riuniranno in ognuno degli stati americani per esprimere la loro preferenza per il candidato alla Casa Bianca che ha prevalso nei rispettivi stati di appartenenza.

Il giorno di Natale, poi, il risultato di questo voto, solitamente una formalità visto che rispecchia quello del 5 novembre, saranno sottoposti al Congresso di Washington che, il 6 gennaio 2025, si riunirà per certificare definitivamente il successo del candidato vincente. In occasione di quest’ultimo passaggio dell’iter elettorale negli USA era esplosa la rivolta dei sostenitori di Trump nel 2021, con l’assalto al Campidoglio e il quasi golpe che avrebbe dovuto consentire al presidente uscente di restare alla Casa Bianca nonostante la sconfitta alle urne.

Una ripetizione di quanto accaduto il 6 gennaio 2021 non è evidentemente da escludere se Trump, in caso di sconfitta, non dovesse riuscire a implementare i piani che sono probabilmente allo studio o già predisposti. Prima, però, potrebbero esserci manovre per un colpo di mano preventivo e decisiva sarà eventualmente la collaborazione con altre istituzioni, come la Camera dei Rappresentanti, con un voto per invalidare voti elettorali di stati vinti da Kamala Harris e oggetto di polemiche, o la Corte Suprema a maggioranza ultra-conservatrice per accogliere istanze volte a bloccare i conteggi o a escludere i risultati di stati in bilico e finiti nella colonna democratica.

La possibile nuova cospirazione trumpiana va di pari passo con una retorica sempre più infuocata nel corso degli ultimi comizi elettorali. L’ex presidente repubblicano continua ad alimentare un movimento di estrema destra attraverso – in primo luogo – tirate razziste e xenofobe che hanno in parte anch’esse l’obiettivo di screditare il processo elettorale. Uno dei pericoli da cui Trump e i suoi mettono in guardia è infatti il tentativo che i democratici starebbero facendo per permettere a un numero imprecisato di immigrati senza cittadinanza americana di votare, anche se ciò è vietato dalla legge degli Stati Uniti, per facilitare la vittoria della Harris.

Resta il fatto che le possibilità concrete di Trump di tornare alla Casa Bianca, al di là delle manovre per ribaltare un eventuale esito favorevole ai democratici, dipendono soprattutto da due fattori, entrambi da ricondurre a gravissime responsabilità politiche dell’amministrazione Biden e del Partito Democratico. Il primo è la sostanziale passività mostrata davanti alla minaccia eversiva di Trump fin dall’autunno del 2020 e alla trasformazione di quello repubblicano in un partito fascistoide.

La parola “fascismo” è stata in realtà utilizzata con maggiore frequenza dalla Harris e da altri esponenti democratici vicini al partito nelle ultime settimane, ma a prevalere continua a essere l’invito alla collaborazione e gli appelli bipartisan per un abbassamento dei toni, attribuendo i rischi della deriva anti-democratica all’orizzonte o già in corso al solo Trump e ai suoi più stretti collaboratori. I democratici e le fazioni dell’apparato di potere governativo a cui fanno riferimento hanno d’altra parte bisogno del Partito Repubblicano per mantenere quanto più stabile possibile il sistema e continuare a perseguire gli obiettivi domestici e internazionali della classe dirigente USA.

Il rilancio di Trump dipende poi dalle disastrose politiche dell’amministrazione Biden, in primo luogo in politica estera con la fallimentare operazione russo-ucraina, che ha aggravato la situazione economica di tutto l’Occidente, e il sostegno attivo e la complicità nel genocidio palestinese perpetrato dal regime sionista di Netanyahu. Non ci sono dubbi che il proporsi come candidato della pace ha favorito Trump, sui cui potrebbero convergere anche i voti di una parte dell’elettorato di origine araba o di fede musulmana, tutt’altro che trascurabile in alcuni stati in bilico, come ad esempio il Michigan.

Il rischio di un clima caotico dopo la chiusura delle urne martedì è dunque concreto. Tre stati americani – Washington, Oregon e Nevada – hanno già attivato contingenti della Guardia Nazionale in previsione di possibili scontri o violenze, ma anche di minacce alle operazioni di voto. Se la situazione dovesse precipitare, tutta da verificare sarà la reazione dell’amministrazione Biden, di Kamala Harris e del Partito Democratico.

Ci sono pochi dubbi che Trump disponga oggi di maggiori appoggi nella comunità degli affari e dentro le strutture del potere. Prova ne è, tra le altre, la decisione senza precedenti negli ultimi decenni di alcuni grandi giornali americani di non esprimere il proprio tradizionale “endorsement” a nessuno dei candidati in corsa. Il Los Angeles Times e il Washington Post di Jeff Bezos sono gli esempi più clamorosi e, visto che entrambi tendono verso i democratici, è chiara l’intenzione dei rispettivi proprietari multimiliardari di coprirsi le spalle in vista di un ritorno di Trump alla Casa Bianca.

C’è però anche un’altra ragione che induce a sospettare un atteggiamento docile del Partito Democratico in un’eventuale situazione di crisi post-elettorale. Lo scivolamento nel caos, l’esplodere di proteste popolari e la prospettiva di un qualcosa che assomigli a un colpo di stato rischierebbero di destabilizzare e paralizzare gli Stati Uniti, minando ancora di più la leadership globale di questo paese e mettendo a repentaglio i piani anti-russi e anti-cinesi, a tutto vantaggio dei processi multipolari già in atto.

Se, quindi, la coda delle elezioni di martedì dovesse prolungarsi e l’incertezza persistere fino a minacciare il sistema, per i democratici arriverà in fretta il momento di decidere le proprie priorità, ovvero la difesa di quello che resta delle formalità democratiche oppure la stabilità del potere attraverso un qualche accomodamento, o la capitolazione completa, con i piani eversivi di Trump e i repubblicani.

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