Più di 60 milioni di americani hanno già votato ma è praticamente impossibile prevedere chi vincerà negli stati in bilico (7) e andrà quindi alla Casa Bianca. I sondaggi, strumento di orientamento più che di indagine, come succede da anni o sbagliano o non dicono nulla per non sbagliare ma Trump sembra avere maggiori possibilità: il 52% contro il 48% della Harris.

 

Tra le poche certezze che possono darsi in sede di previsione è che quale che sia il verdetto vi saranno forti proteste da parte di chi ha perso. Se toccherà ai repubblicani il livello delle stesse potrebbe raggiungere picchi altissimi di violenza, mentre se dovessero perdere i Democratici si troverebbero ad un bivio: mantenere un profilo da establishment che salvaguardi la regolarità del processo e non esponga gli USA ad una crisi di immagine e di affidabilità devastante, oppure aprire uno scontro politico totale che prevede il ricorso alla piazza oltre che ai tribunali.

Lo scontro tra Trump e Harris appare come uno dei più radicali nella storia delle elezioni USA. Ma davvero la sostanza corrisponde all’apparenza? I due candidati sembrano rappresentare due concezioni opposte del ruolo internazionale degli USA oltre che due politiche economiche diverse. Ma che i democratici abbiano obiettivi ed interessi diversi da quelli di Trump è stato sufficientemente smentito in otto anni di amministrazione. La differenza sta solo nei gruppi di riferimento sui quali si poggiano, comunque risultato della volontà dell’establishment che decide di volta in volta di puntare sugli uni o sugli altri, entrambi consapevoli che chiunque prevarrà sarà costretto a svolgere il ruolo di chi amministra un comando altrove residente.

Le scelte strategiche sulle quali si fonda la politica USA sono di pertinenza del suo Deep State, il quale si colloca come sintesi dei suoi più grandi interessi e si alloca in alcuni grandi settori: il complesso militar-industriale e la comunità dell’intelligence civile e militare; i fondi d‘investimento e i grandi gruppi bancari e assicurativi con annesse le loro agenzie di rating fintamente indipendenti; le grandi società che comandano sulla Rete; le grandi corporazioni mediatiche; i petrolieri e tutto il comparto energetico; la lobby delle imprese ad alto sviluppo tecnologico, il Big Tech; Big Pharma e le grandi aziende del settore sanitario privato; le grandi società edilizie e l’agroalimentare.

Questa è la principale essenza (non la sola) del sistema di potere statunitense, condizionato peraltro dalla lobby israeliana e dai gruppi di pressione che sono espressione di complessi equilibri internazionali finanziari che fungono da garanti dell’esposizione statunitense sui mercati. Questo è il quadro del potere, ritratto di coloro che sono in grado di determinare gli accadimenti, di mutare il corso degli eventi e di manipolare la conoscenza degli stessi. Sono la somma degli interessi di questo stato profondo che determina le scelte di politica estera e militare e di politica economica, che stabilisce linee rosse e punti di non ritorno, che misura il potere e lo strapotere dei suoi interessi. Qui nessuno dei due partiti tocca palla, al massimo ci mette la faccia.

 

Due facce della stessa medaglia

Questo non significa che il potere negli USA sia un monoblocco univoco, le differenze ci sono ed attengono a strategie e tattiche diverse, a sistemi valoriali che, ad esempio sul terreno dei diritti civili, divergono e non poco. Ma nella politica estera, che per gli USA ha per diversi aspetti più importanza di quella interna, esistono differenze sulla strategie per raggiungere l’obiettivo comune: il dominio incontrastato degli Stati Uniti sull’Occidente e di questo sull’intero mondo. Tutti coincidono nel pensare che sia la Cina il competitor più pericoloso e che dunque urge una decisiva sconfitta di Pechino che ne ridimensioni peso e ruolo sui mercati internazionali. Al pari, serve un forte contenimento militare e politico della Russia, che si è dimostrata nemico strutturato e capace di sostenere prima e vincere poi in Siria e in Ucraina il confronto con l’intero blocco occidentale. Come se non bastasse, c’è poi il legame politico, commerciale ed anche militare tra i due paesi che rende decisamente velleitario il tentativo di limitarne la crescita dell'influenza. Se si vuole continuare ad esercitare il dominio assoluto sul pianeta, l’alleanza strategica tra Pechino e Mosca è, quindi, il primo scoglio da affrontare.

Ebbene, una parte del deep state ritiene che l’attacco alla Russia tramite l’Ucraina sia stato un errore, per due motivi. Si ritiene che la Russia potesse sviluppare il suo legame con i paesi UE per poi esserne lentamente assorbita, ricompensata da una collocazione vantaggiosa nella sfera occidentale euroasiatica, cosa ormai seppellita dalla guerra scatenata da USA e UE contro Mosca. Poi perchè l’incremento dell’Eurasia avrebbe relativizzato il peso dell’export cinese verso la Russia, mentre avrebbe reso indispensabile l’approvvigionamento energetico russo a Pechino, che si sarebbe trovata in una posizione subordinata nel rapporto con Mosca e dunque fragile sul terreno militare. Questo, in prospettiva, avrebbe consentito di mettere in ghiaccio l’alleanza strategica tra i due paesi che, storicamente, non sono mai stati un blocco unico, anzi.

Un altro pezzo di establishment, quello con cui più si identificano i democratici, ritiene invece che la sconfitta militare della Russia debba essere la premessa per poter poi poter attaccare militarmente la Cina. Ciò perché Pechino, completamente priva di storia militare moderna, pur avendo modernizzato e ampliato enormemente il suo dispositivo militare, ivi incluso quello nucleare-strategico, ha in Mosca il più prezioso alleato ed assistente insieme alla Corea del Nord, il cui peso è però relativo. Dunque, per poter attaccare la Cina, banalmente, si deve prima mettere la Russia - sconfitta o stremata dal conflitto in Ucraina - in condizione di non poter prestare l’assistenza prevista dall’accordo di partenariato strategico politico e militare. Che questa impostazione si sia rivelata fallace è del tutto evidente.

Cammini diversi figli di una impostazione diversa. Una diversità di approcci che riguarda molti scenari internazionali, dal continente americano all’Europa, dall’Asia all’Africa, l’Oceania è contorno. Ma le divergenze sono nelle priorità, nei modi e nei tempi, non negli obiettivi finali. E i due partiti rappresentano le due varianti tattiche, spesso affidate ai rispettivi think tank di riferimento; sono modelli d’intervento apparentemente distinti e distanti ma nella realtà più omogenei di quanto si pensi.

 

Il fallimento del modello

E’ invece sul piano della rappresentanza sociale che gli Stati Uniti sono un paese spaccato in due e oggetto di una polarizzazione che prefigura una impossibile riconciliazione. Sul piano elettorale lo scontro  rispecchia quello tra identità sociali e se Kamala Harris non emoziona l’elettorato democratico, che vota per lei solo per poter esprimere un voto contro Trump, al magnate ignorante è impossibile negare la capacità di trascinamento mettendo in connessione elettorale, se non sentimentale, i pezzi dispersi del puzzle americano.

Trump riunisce le vittime della crescita economica di questi ultimi anni. Una crescita perlomeno distopica, perché ha visto e propagandato eccellenti risultati sulle borse che hanno premiato i comparti bancari e tecnologici oltre all’industria bellica, ma che si sono poggiati sulle spalle di diseguaglianze sociali enormi che vedono l’impoverimento del 40% della popolazione del Paese più ricco che produce sempre più poveri e sempre più ingiustizia.

Chi si sente disallineato trova in Trump una dimensione antiestablishment difficile da confutare, amplificata dall’assenza di stile nei modi e di decenza nei contenuti che lo caratterizza. Trump unisce l’America più buia, quella cospirazionista, razzista, suprematista bianca, dei fanatici delle armi e del fondamentalisti religiosi, da sempre patrimonio elettorale della destra Repubblicana.

Che trova però una connessione con l’America del disagio sociale che pure dovrebbe appartenere al bacino di voto dei democratici. In particolare il ceto medio, che dalla crisi finanziaria del 2008 ha visto l’erodersi della sua coesione sociale ed il suo impoverimento, che lo ha trascinato nelle classi più disagiate. Questa parte del Paese avrebbe dovuto essere rappresentata dai Democratici, che hanno invece scelto come referenti le élites intellettuali e politiche e assunto a interlocutore e riferimento politico i giganti della Silicon Valley, ovvero i padroni della Rete e i magnati della comunicazione.

Non è un caso che il bacino elettorale dei democratici non sia più nelle cinture operaie e che i campus per milionari siano divenuti il terreno fertile di un partito che si connota come rappresentante delle classi agiate dalle quali intende estrarre la futura classe dirigente del Paese. Se questo era fisiologico per i repubblicani, ha rappresentato uno shock per l’elettorato democratico che si trova a scegliere tra due destre o l’astensione. Insomma il prevalere della parte più reazionaria e di quella orfana di un pensiero progressista dell’America profonda, la si trova in un dislivello verso il basso e Trump ha unito le due sponde opposte che sono diventate un unico mare.

Quali dei due contendenti prevarrà dalle urne, la politica estera generale non avrà sussulti. Vi saranno accenti diversi e decisioni di rottura se vincerà Trump, con effetti a geometrie variabili in Medio Oriente o verso la Russia, in America Latina e nel rapporto con l’India  ed un probabile aumento delle sanzioni contro tutti e ovunque, mentre non ci aspettano cambiamenti significativi nel caso vincesse la Harris. Non in questa fase nella quale il multipolarismo minaccia seriamente l’impero unipolare a guida anglosassone.

Che la Harris possa fermare il ciclone Trump è possibile, in fondo la differenza pronosticata non supera i due punti. Ma chiunque vinca, comincerà il nuovo mandato sferrando colpi proprio sul multipolarismo. Che pare dotato però di mascella robusta e ben fermo sulle gambe. Difficile dunque che incasserà senza reagire.

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