Il primo ministro cinese, Li Qiang, è protagonista in questi giorni di una trasferta in Oceania con al centro delle discussioni il tentativo di contrasto alle manovre americane per contenere e accerchiare militarmente la Repubblica Popolare. Australia e Nuova Zelanda sono due elementi fondamentali nella strategia americana di confronto con Pechino ed entrambi i paesi stanno progressivamente e pericolosamente piegandosi alle pressioni degli Stati Uniti nonostante abbiano proprio nella Cina il loro principale partner commerciale.

 

La prima tappa del tour di Li è stata la Nuova Zelanda, dove le elezioni generali dello scorso ottobre avevano riportato al governo i conservatori, ritenuti tradizionalmente peggio disposti nei confronti della Cina rispetto ai laburisti. In linea generale, questo paese si attiene a una linea di politica estera più cauta della vicina Australia, tanto che nel 2008 era stato il primo tra quelli “avanzati” a sottoscrivere con la Cina un accordo di libero scambio. Il precedente governo laburista di Jacinda Ardern aveva inoltre deciso la partecipazione del suo paese alla cosiddetta “Via della Seta” o “Belt and Road Initiative” (BRI) cinese, da cui invece i vicini australiani si sono tenuti fuori. Dieci anni fa, i due paesi avevano anche aggiornato le loro relazioni, portandole ufficialmente al livello di “Partnership Strategica Globale”.

Queste iniziative e soprattutto la prima hanno generato e continuano a generare importanti vantaggi per l’economia neozelandese, tra le pochissime a livello planetario a vantare un dato positivo della bilancia commerciale con la Cina negli ultimi anni. Gli scambi di merci complessivi nel 2022 ammontavano a 24,8 miliardi di dollari USA, con il mercato cinese che assorbe quasi un quarto delle esportazioni neozelandesi.

Il clima del vertice tra il premier cinese da una parte e, dall’altra, il suo omologo, Chris Luxon, e il ministro del Commercio, Todd McClay, è apparso estremamente cordiale. Nell’occasione, il rappresentante cinese ha annunciato l’inclusione dei cittadini neozelandesi tra quelli che non necessitano di un visto per entrare nella Repubblica Popolare. Simbolicamente di rilievo è stato poi l’invito al governo di Wellington a partecipare a una fiera commerciale che si terrà quest’anno a Shanghai come “ospite d’onore”. Non sono mancate infine discussioni e trattative su nuovi futuri progetti di investimento, soprattutto in ambito infrastrutturale in Nuova Zelanda.

Le dichiarazioni pubbliche di Li sono state per lo più improntate all’apertura all’ipotesi rafforzamento dei rapporti bilaterali, sia pure con velati avvertimenti a non mettere a repentaglio lo status quo a causa di “diversità di vedute” su determinate questioni. Il riferimento è chiaramente alle manovre americane che puntano, in Nuova Zelanda come altrove, allo sganciamento dei paesi formalmente alleati di Washington dalla Cina.

Se i rapporti sino-neozelandesi restano solidi non solo in ambito economico-commerciale, segnali di incrinature sono emersi negli ultimi tempi proprio in conseguenza delle dinamiche innescate dalla condotta americana nell’area Asia-Pacifico in funzione anti-cinese. Di questa realtà si sono osservati i riflessi proprio nel corso della visita del premier cinese. Il capo del governo di Wellington ha citato alcuni argomenti di discussione che, con ogni probabilità, sono stati dettati dall’ambasciata americana, come le riserve sulla questione dei diritti umani, le presunte “interferenze” cinesi nella vita politica neozelandese e la condotta di Pechino nel quadro delle dispute territoriali e marittime nel Mar Cinese Meridionale.

Le rimostranze di Luxon sono in larga misura artificiose e ricalcano quelle espresse frequentemente da altri alleati americani nei confronti della Cina, anche se sul tema delle “interferenze” è piuttosto Washington che spesso controlla di fatto la politica estera di questi ultimi, per non parlare delle manovre per alimentare i contrasti tra le parti in causa nelle dispute nel Mar Cinese e altrove. Allo stesso modo, la tendenza al peggioramento dei rapporti bilaterali con la Cina, che la stampa ufficiale sottolinea puntualmente e che riguarderebbe anche la Nuova Zelanda, è una costruzione della propaganda USA o, per meglio dire, lo sono le ragioni che sarebbero alla base di questo deterioramento.

Una parte della classe politica neozelandese, così come quella di altri paesi, abbraccia comunque attivamente le iniziative americane. Nel caso di Wellington, ancora di più del partito del premier (Partito Nazionale) è l’alleato di coalizione ultranazionalista “New Zealand First” del ministro degli Esteri, Winston Peters, a promuovere le politiche anti-cinesi. Peters e il suo partito sono ad esempio i più entusiasti sostenitori della partecipazione della Nuova Zelanda alla partnership nell’ambito della sicurezza guidata dagli Stati Uniti e che include già l’Australia e il Regno Unito (AUKUS).

Questo progetto è probabilmente l’elemento ad oggi più destabilizzante dei rapporti tra Wellington e Pechino. Secondo la versione ufficiale proposta da Washington, l’ingresso della Nuova Zelanda in questo organo sarebbe necessario per far fronte alla crescente minaccia alla sicurezza rappresentata dalla Cina, ma è in realtà proprio la promozione di un clima di scontro da parte americana a creare i presupposti di una possibile destabilizzazione dell’area Asia-Pacifico.

È chiaro che la Nuova Zelanda non è esattamente un paese neutrale, dal momento che è inserita in un sistema di alleanze consolidato. Questo paese è parte ad esempio dei cosiddetti “Five Eyes”, la rete anglo-sassone di intelligence che prevede lo scambio di informazioni sensibili in vari ambiti e che include anche USA, Regno Unito, Australia e Canada. I governi degli ultimi due decenni hanno inoltre partecipato attivamente alle guerre criminali in Afganistan e in Iraq, così come più di recente si sono schierati a fianco della NATO a sostegno del regime ucraino contro la Russia.

Il governo laburista di Jacinda Ardern aveva poi pubblicato nel 2018 un documento strategico relativo alla sicurezza nazionale neozelandese nel quale la Cina veniva definita esplicitamente come una “minaccia” al cosiddetto “ordine internazionale basato su regole”, il concetto altamente manipolabile usato dagli Stati Uniti e i loro alleati per giustificare qualsiasi iniziativa che sia in linea con i propri interessi. L’anno successivo, sempre i laburisti si erano allineati alla campagna di demonizzazione delle attività cinesi all’estero, introducendo una nuova legge per contrastare “interferenze esterne” sulle dinamiche politiche interne, chiaramente con la Cina nel mirino.

La visita del premier cinese Li ha comunque confermato come la classe dirigente neozelandese intenda almeno per il momento attenersi a una politica estera equilibrata o, più precisamente, ambigua per non mettere a rischio gli interessi del capitalismo indigeno, ma allo stesso tempo non rinunci ad assecondare le richieste strategiche americane. Sul fronte militare, è probabile che Wellington, se anche dovesse finire per sposare le iniziative USA dirette contro la Cina, eviti di spingersi oltre un certo limite, se non altro per non contravvenire al principio del rifiuto dell’opzione nucleare, implicita invece nei piani AUKUS.

Almeno all’apparenza, anche il vertice di lunedì tra Li Qiang e il primo ministro australiano, Anthony Albanese, ha ratificato l’attenuamento delle tensioni tra i due paesi, dopo i contrasti degli ultimi anni, dovuti tra l’altro all’approvazione da parte del parlamento di Canberra di una legge contro le “interferenze” straniere (cinesi) e alla messa al bando del gigante delle telecomunicazioni Huawei.

La prima visita in Australia di un premier cinese negli ultimi sette anni segue di poco la cancellazione da parte di Pechino di una serie di dazi che erano stati imposti alle esportazioni australiane di numerosi prodotti, inclusi vino e carbone. Come per la Nuova Zelanda, la guida laburista del governo australiano comporta un’attitudine meno ostile verso la Repubblica Popolare, ma anche in questo caso sembra trattarsi più che altro di aggiustamenti delle scelte di politica estera che incidono di poco sulla traiettoria generale, caratterizzata dal sostanziale e progressivo allineamento alle esigenze strategiche americane.

Infatti, anche il governo australiano ha negli ultimi mesi espresso critiche piuttosto ferme nei confronti di Pechino per le solite ragioni dettate da Washington, prima fra tutte la condotta “irresponsabile” nelle dispute del Mar Cinese. Canberra ha poi abbracciato l’AUKUS anche a costo di un futuro impegno finanziario dalla portata enorme. Il tutto mettendo in conto rischi considerevoli, tenendo presente che lo scorso anno gli scambi commerciali con la Cina hanno sfiorato i 216 miliardi di dollari USA.

La competizione tra Washington e Pechino in Estremo Oriente è comunque destinata a intensificarsi e per gli alleati americani in prima linea in un eventuale rovinoso conflitto sarà sempre più complicato mantenersi in equilibrio tra le due potenze. Ciò che resta da verificare nel prossimo futuro, in uno scenario per molti versi simile a quello che vede l’Europa sulla strada del suicidio economico nel quadro del conflitto russo-ucraino, è fino a che punto i leader di Australia e Nuova Zelanda, ma anche di Taiwan, Filippine e altri ancora, saranno disposti a spingersi per rimanere al tavolo dell’Impero, sacrificando l’economia e, in caso di guerra, l’esistenza stessa dei loro paesi.

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