Gli eventi seguiti alle elezioni generali di fine maggio in Sudafrica sono stati inevitabilmente influenzati dal peggiore risultato fatto segnare dall’African National Congress (ANC) dalla prima consultazione democratica del 1994 dopo la fine del regime di apartheid. Il partito che fu di Nelson Mandela era sceso per la prima volta sotto il 50% dei consensi ed è stato così costretto a entrare in un’inedita alleanza politica con altre formazioni, tra cui la principale è la propria nemesi dell’Alleanza Democratica (DA), tradizionale espressione delle élites bianche ed erede di fatto del Partito Nazionale al potere tra il 1948 e il 1994.

 

Un accordo è stato trovato in tempi stretti per rispettare la norma costituzionale che prevede la convocazione del parlamento e l’elezione di un nuovo presidente entro 14 giorni dalla data delle elezioni. Il numero uno dell’ANC, il presidente Cyril Ramaphosa, aveva provato a fare un appello a tutti i partiti sudafricani per dare vita a un governo di “unità nazionale”. Dopo che le due principali formazioni alla sinistra dell’ANC avevano declinato l’offerta, per garantirsi la sopravvivenza politica, Ramaphosa non ha però potuto fare altro che sottoscrivere un’intesa con il partito ultra-liberista, pro-business e filo-atlantista guidato dal 48enne John Steenhuisen.

L’ANC aveva assistito a una vera e propria emorragia di voti il 29 maggio scorso, scendendo dal 58% del 2019, già record negativo per il partito, al 40% con appena 159 seggi sui 400 complessivi. L’Alleanza Democratica è rimasta invece pressoché stabile con il 22% dei consensi, mentre al terzo e quarto posto hanno chiuso i due partiti ideologicamente più vicini all’ANC. Uno di questi è il nuovo soggetto politico dell’ex presidente e storico esponente dell’ANC, Jacob Zuma, con la roccaforte nella provincia sudorientale di KwaZulu-Natal (uMkhonto weSizwe; MK) che ha sfiorato il 15% a livello nazionale.

Zuma aveva vincolato la possibile collaborazione con l’ANC alla rinuncia di Ramaphosa alla presidenza. Una richiesta che ha immediatamente escluso un accordo tra i due partiti. I due leader sono da tempo ai ferri corti, dopo che la fazione che fa capo a Ramaphosa aveva in pratica costretto Zuma alle dimissioni nel 2018 in seguito a una serie di guai legali collegati ad accuse di stupro e corruzione.

Dietro al MK si è posizionato l’altro partito creato da una scissione dell’ANC, gli “Economic Freedom Fighters” (EFF) di Julius Malema, leader dall’accesissima retorica radicale che aveva anch’esso escluso la partecipazione a un governo di unità nazionale. Il movimento di Malema si è attestato attorno al 10% e, come il MK di Zuma, ha valutato più vantaggiosa la permanenza all’opposizione contro un esecutivo sbilanciato a destra con la partecipazione dell’Alleanza Democratica.

Del nuovo governo faranno parte invece anche l’Alleanza Patriottica, partito di orientamento conservatore e anti-immigrazione che ha raccolto circa il 2% dei voti, e il Partito della Libertà Inkatha (IFP) (3,8%), formazione nazionalista Zulu protagonista di un violento conflitto con l’ANC negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. L’inclusione dell’IFP nella nuova coalizione serve senza dubbio a Ramaphosa per dimostrare che il nascente governo non sarà semplice espressione della collaborazione con il principale partito delle élites bianche.

Secondo quanto riportato dalla stampa sudafricana e anglosassone, l’accordo definitivo per la rielezione di Ramaphosa tra ANC e DA è stato finalizzato dopo l’apertura della sessione del nuovo parlamento nella mattinata di venerdì scorso, nella quale era appunto in calendario il voto per il nuovo presidente. L’ANC ha anche ottenuto la nomina del nuovo “speaker” dell’assemblea legislativa, mentre la carica di vice è andata a un deputato dell’Alleanza Democratica. Ramaphosa sarà così insediato ufficialmente nella giornata di mercoledì, quando verrà anche presentato il nuovo gabinetto, nel quale ci saranno per la prima volta nel dopo-apartheid anche esponenti della DA.

La coalizione tra ANC e DA potrebbe avere implicazioni non indifferenti per il futuro del Sudafrica, sia sul fronte economico interno sia sul piano strategico internazionale. All’orizzonte potrebbe esserci la liquidazione anche formale delle politiche volte a riequilibrare gli squilibri economici e sociali che favoriscono la minoranza bianca, così come da verificare sarà l’orientamento sudafricano verso le dinamiche multipolari in atto a livello globale.

Il Sudafrica è membro dei BRICS e continua a intrattenere stretti rapporti con paesi come Russia e Cina nonostante le pressioni americane. Questo paese ha anche denunciato Israele per genocidio e crimini di guerra davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, coerentemente con il tradizionale appoggio alla causa palestinese. I temi di politica estera, anche se di importanza fondamentale per il Sudafrica e non solo, sono stati però solo raramente toccati nel corso della campagna elettorale e ancora meno si è parlato di un possibile riassestamento delle priorità di Pretoria in un eventuale governo di coalizione con un partito filo-atlantista e filo-israeliano.

Soprattutto in ambito economico, in ogni caso, il matrimonio d’interesse con l’Alleanza Democratica è a ben vedere la logica conseguenza dell’involuzione dell’ANC dopo la fine dell’apartheid. L’approdo al potere nel 1994 del partito espressione della maggioranza di colore implicava l’allargamento dei diritti politici al prezzo della conservazione sostanziale dell’esistente sistema economico-sociale. L’introduzione di modesti programmi a favore delle fasce più povere della popolazione serviva per lo più a coprire iniziative tese a creare una ristretta borghesia di colore legata all’ANC e agli organi a esso collegati.

Lo stesso Ramaphosa è il prodotto di questo processo. Da dirigente sindacale, il presidente appena rieletto era approdato ai vertici di importanti compagnie private, diventando immensamente ricco. La traiettoria del Sudafrica post-apartheid sotto la guida dell’ANC è stata così piena di contraddizioni, tanto che oggi questo paese fa segnare altissimi livelli di disuguaglianze e disoccupazione, oltre che il persistere di corruzione endemica e criminalità.

Nell’annunciare l’accordo per il nuovo governo, Ramaphosa ha parlato di una “rinascita” per il Sudafrica, insistendo sulla retorica dell’unità e del superamento delle differenze. L’appello del presidente ha evidentemente poco senso, visto che l’appoggio dell’Alleanza Democratica non potrà che influenzare le scelte dell’esecutivo in direzione liberista, ovvero intensificando quelle stesse politiche che hanno contribuito a creare la situazione attuale.

Il nuovo governo è dunque espressione della progressiva crisi di legittimità di un African National Congress che ad ogni appuntamento con le urne almeno nell’ultimo decennio ha visto perdere consensi tra la maggioranza di colore. Di conseguenza, instabilità e precarietà saranno all’ordine del giorno, anche per via delle resistenze all’accordo con l’Alleanza Democratica dentro il partito del presidente. Il timore più che giustificato di molti è che la strada scelta da Ramaphosa finisca per screditare ancora di più l’ANC e determinare un’ulteriore pesante perdita di consensi nel prossimo futuro.

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