Nel tentativo di scongiurare la procedura d’infrazione europea, Giuseppe Conte e Giovanni Tria si stanno trasformando in trapezisti contabili. Salti mortali e volteggi si fanno ogni giorno più estremi e sotto, purtroppo, non c’è alcuna rete. Solo il pavimento, sempre più vicino.

 

Il capo del Governo se n’è accorto la settimana scorsa al Consiglio europeo sulle nomine, dove non ha trovato la collaborazione che si aspettava. “Evitare la procedura – ha ammesso – sarà davvero complicato”. Ed è un eufemismo, visto che, solo per iniziare, il governo dovrebbe presentare mercoledì un assestamento di bilancio da sette miliardi di euro.

 

 

Il Premier sperava di poter contare almeno sui due miliardi accantonati con l’ultima manovra, ma sbagliava: le richieste della Commissione europea sono già al netto di quei risparmi.

 

Palazzo Chigi e il Tesoro puntano allora sui tre miliardi avanzati da quota 100 e reddito di cittadinanza. L’anno scorso la Ragione Generale dello Stato aveva fatto i conti in modo prudente, considerando lo scenario peggiore possibile, quello di massima adesione alle due misure bandiera del governo gialloverde. È per questo che oggi una parte dei soldi risulta inutilizzata: il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, parla di un miliardo solo da quota 100; sul reddito di cittadinanza, invece, è più difficile fare stime, perché le richieste arriveranno per tutto l’anno.

 

Ed è questo il problema: Bruxelles vuole garanzie, non impegni vaghi su risorse che potrebbero materializzarsi a dicembre. Di conseguenza, è probabile che Tria non inserirà questi soldi nelle tabelle dell’assestamento di Bilancio, che dovrebbe contenere solo un riferimento a minori spese, forse anche in riferimento al 2020. Nulla di più.

 

Fin qui, gli unici fondi certi sono quelli in arrivo da Cdp e Bankitalia. Venerdì prossimo il Governo costringerà l’assemblea della Cassa Depositi e Prestiti – controllata dal ministero dell’Economia – a rimpinguare le casse del Tesoro con un dividendo extra da 800 milioni, che si aggiungerà alla cedola ordinaria da 1,3 miliardi staccata a maggio. Come fanno notare le Fondazioni bancarie, azioniste di minoranza della Cdp, da quando la Cassa è stata trasformata in Spa non era mai stato distribuito il 100% degli utili. Quest’anno sarebbe la prima volta. Perciò le possibilità sono due: se l’operazione è di natura eccezionale, le entrate sono una tantum e potrebbero non essere accettate dall’Europa; se invece da qui in avanti si farà sempre così, allora la Cdp non potrà più svolgere la sua funzione, che è quella di usare il risparmio postale per investire in progetti a lungo termine e finanziare le Pmi.

 

Ma non è finita. Il Governo vuole usare anche una parte degli utili prodotti dalla Banca d’Italia, che nell’ultimo bilancio ammontavano a 6,24 miliardi. Se a questa somma togliamo i dividendi da dare ai soci e sommiamo le imposte dovute, otteniamo i soldi che deve incassare lo Stato. Il risultato fa circa sette miliardi, due in più rispetto all’anno precedente, una differenza che il Governo spera di poter usare per ridurre il deficit di quest’anno. Anche in questo caso siamo di fronte a un artificio contabile che potrebbe essere respinto da Bruxelles.

 

Ma facciamo finta che l’Europa decida di farsi andare bene tutto. Nell’assestamento di bilancio ci sarebbero due miliardi in arrivo dalla Cdp (fra dividendo ed extradividendo), due miliardi da Bankitalia e altri tre da quota 100 e reddito di cittadinanza. Fanno sette miliardi, proprio la cifra che l’Ue ci chiede per correggere i bilanci del 2018-2019. Tutto risolto? Nemmeno per idea. Anzi, la meta è ancora lontana.

 

Questi sette miliardi sono solo un biglietto da visita, un prerequisito in assenza del quale la Commissione non accetterebbe nemmeno di iniziare la trattativa con l’Italia. Il vero caos riguarda i conti italiani del 2020, su cui Bruxelles chiede garanzie ferree per evitare che il deficit arrivi al 3,5% del Pil (mezzo punto oltre il parametro di Maastricht) e il debito sfondi il muro del 135%.

 

Su questo fronte le parti sono lontane anni luce, considerando che Matteo Salvini parla di spendere 15 miliardi in deficit per la Flat tax, mentre tutto l’Esecutivo dà per scontato – chissà perché – che non sarà un problema trovarne altri 23 per evitare l’aumento dell’Iva.

 

In verità, Salvini e Di Maio non stanno facendo assolutamente nulla per evitare che il 9 luglio l’Ecofin dia il via alla procedura d’infrazione. Al contrario, i due vicepremier sanno bene che questo governo ha i giorni contati e forse pensano che lo scontro con l’Europa potrebbe essere un pretesto efficace per giustificare la crisi in arrivo. Di sicuro, sarà un grandioso argomento da campagna elettorale.

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