Sta accadendo il contrario di quello che il Governo italiano aveva previsto. Salvini & Co pensavano che le elezioni europee avrebbero indotto Bruxelles a diventare più morbida nei nostri confronti, invece il cambiamento è stato di segno opposto. La trattativa sulla procedura d’infrazione viaggia su binari molto meno accondiscendenti che in passato e rischia di accelerare la caduta dell’Esecutivo.

 

Fino a pochi giorni fa l’Italia pensava che per evitare il peggio bastasse una correzione da 3,5 miliardi sui conti del 2019 e una serie d’impegni per l’anno prossimo. Purtroppo, però, le tante sparate elettoralistiche dei due vicepremier hanno azzerato la credibilità del nostro Paese e i partner europei hanno alzato l’asticella.

 

Ora non solo ci chiedono di tappare il buco del 2019, ma anche quello dell’anno scorso. Considerato uno sconto per il crollo del ponte Morandi e per i lavori contro il dissesto idrogeologico, rimangono da trovare 9 miliardi di euro. La cifra potrebbe scendere, ma questa è la base di partenza del negoziato e la strada del compromesso sembra sempre più difficile. Anche perché ormai l’Italia è completamente isolata.

 

La settimana scorsa al Comitato economico e finanziario, che riunisce i direttori generali del Tesoro di tutti i Paesi, la procedura d’infrazione è stata votata da 27 membri su 28, cioè da tutti, visto che il 28esimo membro siamo noi. La stessa compattezza è stata poi ribadita alle riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin. Intendiamoci, non tutti vogliono castigare il nostro Paese: al contrario, Parigi, Berlino e Madrid preferirebbero evitare lo scontro con un Paese economicamente rilevante come il nostro, ma per disinnescare la procedura pretendono comunque degli impegni che i gialloverdi non sembrano intenzionati a prendere.

 

E così siamo allo stallo, tanto più preoccupante visto che ormai il tempo stringe. L’Italia deve inviare a Bruxelles una lettera di risposta almeno qualche giorno prima del 9 luglio, quando si riunirà l’Ecofin a cui spetta il verdetto finale.

 

Se alla fine la procedura scatterà, le conseguenze saranno pesantissime. I conti pubblici del nostro paese finiranno sotto commissariamento europeo per almeno cinque anni, il che significherà non solo spesa pubblica congelata, ma anche un piano di rientro dal debito da almeno una decina di miliardi l’anno. Il tutto condito con visite periodiche degli “ispettori” comunitari, almeno una volta ogni tre mesi. E se ci rifiuteremo ancora di obbedire, arriveranno le vere e proprie sanzioni economiche. 

 

Nel frattempo, il debito italiano tornerà al centro della speculazione internazionale e i tassi d’interesse su Bot e Btp schizzeranno alle stelle. I danni saranno immediati, visto che nel secondo semestre di quest’anno dovremo rinnovare titoli di Stato per quasi 200 miliardi di euro. Non solo: a settembre le agenzie di rating pubblicheranno le nuove valutazioni e un eventuale declassamento costringerebbe persino la Bce a non comprare più le obbligazioni pubbliche italiane.

 

Un bel quadretto disastroso. Ma come ci siamo arrivati? Il peccato originario è stato nell’autunno del 2018, quando i pentaleghisti decisero di violare le regole europee sul debito (ricordate le esultanze sul balcone?). Dopo di che, a dicembre, hanno cercato di tappare la falla sottoscrivendo un accordo suicida con la Commissione: oltre a clausole Iva molto più pesanti che in passato, l’intesa prevedeva di chiudere il 2019 con un deficit-Pil al 2,04% (invece del 2,4% voluto dai legastellati: il famoso “colpo di genio” comunicativo di Rocco Casalino).

 

Poi però, ad aprile, il Governo ha dovuto ammettere nel Def che il disavanzo di quest’anno arriverà al 2,4%. Infine, hanno cambiato idea ancora una volta.

 

Ora secondo il Tesoro il dato tornerà a scendere nei prossimi mesi, fino ad attestarsi poco sopra il 2,1% a fine 2019. A determinare il calo saranno le maggiori entrate tributarie (grazie all’Iva spinta dalla fattura elettronica), gli utili e i dividendi delle aziende di Stato e soprattutto i risparmi sui fondi stanziati per quota 100 e reddito di cittadinanza.

Il problema è che, se anche questi calcoli fossero verosimili, non basterebbero da soli a scongiurare la procedura d’infrazione. La questione principale riguarda infatti i conti del 2020, che rischiano di essere pesantemente sballati.

 

Secondo l’Europa, in assenza di correzioni, l’anno prossimo il debito pubblico italiano si spingerà oltre il 135% del Pil, mentre il deficit arriverà al 3,5%, mezzo punto oltre la soglia di Maastricht. Peraltro, questi calcoli non tengono conto della montagna di soldi che il governo italiano sembra determinato a spendere con la manovra d’autunno: 23 miliardi per evitare gli aumenti dell’Iva più altri 12-15 per la Flat tax.

 

La verità è che la tassa piatta non si potrà fare comunque, perché i soldi non ci sono - neanche lontanamente - e finanziare un’altra misura del genere in deficit sarebbe un harakiri contabile. Del resto, l’Europa non ce lo permetterebbe in alcun caso: se accettassimo le richieste di Bruxelles, dovremmo archiviare la Flat tax; se le rifiutassimo faremmo scattare la procedura, il Paese finirebbe sotto commissariamento europeo e la Flat tax tornerebbe comunque nel regno dei sogni.

 

Matteo Salvini si trova davanti a un bivio impossibile. Per evitarlo, potrebbe scegliere di far saltare tutto, aprendo ufficialmente la crisi di governo entro il 20 luglio, così da tornare al voto a fine settembre. In questo modo gli si aprirebbe davanti una vi di fuga: la responsabilità delle elezioni anticipate si potrebbe facilmente scaricare sull’Europa, mentre Bruxelles, per non influenzare la campagna elettorale, potrebbe sospendere la procedura, riattivandola poi automaticamente alla formazione del nuovo governo. Ma a quel punto saremo ormai in autunno inoltrato. E, probabilmente, Salvini sarà già a Palazzo Chigi.

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