di Sara Seganti

Lo slogan tanto atteso è arrivato dagli Stati Uniti e non poteva essere diversamente. Occupy wall street ha un mantra: “Siamo il 99%”, come a voler dire: bisognerà pure che ciò conti qualcosa. Il movimento di protesta che staziona da due mesi nel cuore di Wall Street ha portato alla ribalta il primo slogan dell’indignazione popolare, capace di rappresentare coloro che non si riconoscono più nel mito liberista oggettivato nella deregolamentazione dell’economia finanziaria che tanta fortuna ha avuto negli ultimi decenni, anche in Europa. E, soprattutto, di coloro che non si riconoscono nella gestione della crisi finanziaria ed economica che sembra non tenere conto degli errori del recente passato.

Il salvataggio delle banche americane nel 2008, così come l’attuale tentativo della Bce di mettere in sicurezza i sistemi finanziari europei (tra l’altro sembra con scarsi risultati) senza che a queste azioni di emergenza sia accostato un reale ripensamento delle regole del gioco, non convince chi pensa che non spetti a quel 99% pagare il costo di una crisi economica che si aggrava ogni giorno.

In questi giorni, particolarmente foschi per il futuro della moneta unica europea, il dibattito torna di continuo sul divario sempre più ampio tra i ricchi e i poveri: forse l’unico vero tema su cui c’è uniformità di vedute tra chi protesta, dall’Europa agli Stati Uniti.

La distanza tra chi possiede quasi tutto e chi non possiede praticamente niente è di 99 a 1. Il divario è tale che circa 3 miliardi di persone detengono poco più del 3% della ricchezza mondiale, mentre l’1% della popolazione mondiale, poco meno di 40 milioni di persone, detiene fino al 40% della ricchezza privata globale e chiude il restante 99% in un senso di frustrazione che sta provocando manifestazioni più o meno violente in giro per il mondo.

Queste proteste non ricalcano i movimenti “no-global” di qualche anno fa, ma anzi, sembrano aver messo da parte le preoccupazioni per le ineguaglianze tra nord e sud del mondo, per privilegiare la denuncia della sperequazione di reddito tra ricchi e poveri all’interno dei paesi “industrializzati”. Protagonista dell’indignazione, la classe media americana ed europea travolta dalla crisi economica sta cercando di difendere il suo ruolo sociale nella speranza che alla politica importi ancora qualcosa del suo elettorato.

Se n’è parlato anche durante una conferenza milanese sulle disuguaglianze economiche e sociali promossa dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e dalla Fondazione Cariplo, dove si è discusso d’ingiustizia sociale, anche sulla base della fotografia dell’ultimo rapporto Ocse: "Growing income inequality in Oecd countries: what drives it and how can policy tackle it?".

Il testo diffuso nello scorso mese di maggio ha rilevato che il 10% della popolazione più povera appartenente ai paesi “industrializzati” ha redditi inferiori, fino a 9 volte, rispetto al 10% della popolazione più ricca. E’ in aumento anche il coefficiente di Gini (per il quale 0 equivale ad una distribuzione del reddito in perfetto equilibro, e 1 al perfetto squilibrio), che è salito del 10% circa, raggiungendo quota 0,31 alla fine dello scorso decennio, mentre era di 0,28 alla fine degli anni’80, calcolato sulla media dei paesi Ocse.

 Non stupisce che siano stati gli indignati americani a coniare lo slogan “siamo il 99%”, visto che gli Stati Uniti, bastione del capitalismo finanziario deregolato, sono caratterizzati da uno dei più forti squilibri di reddito al loro interno. Secondo l’analisi del Congressional Budget Office (l’Ufficio bilancio del Congresso americano) tra il 1979 e il 2007, il reddito dell’1% più ricco della popolazione è aumentato in media del 275%, contro un aumento del 40% per il 60% di americani appartenenti alla classe media. In fondo alla scala, il 20% della popolazione più povera ha visto crescere il proprio reddito solo del 18%. Oggi, l’1% della popolazione americana controlla circa il 40% della ricchezza del paese e, considerando il 10% più ricco, la percentuale di ricchezza corrispondente aumenta al 73%.

La sperequazione dei redditi e la concentrazione della ricchezza, in un paese come gli Stati Uniti, sono conseguenze dirette di un sistema economico al quale si sono aggiunte negli anni decisioni politiche sempre più indifferenti ai principi dell’equità. Una tassazione sempre meno proporzionale ai redditi, le modalità di accesso al credito, la deregolamentazione economico finanziaria, il circolo vizioso della propensione al consumo, sono tutti aspetti di cui oggi si rincomincia a discutere visti i risultati raggiunti.

La presentazione, avvenuta il 2 novembre, del Rapporto 2011 del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite dal titolo «Sostenibilità ed equità: un futuro migliore per tutti», sull’indice di sviluppo umano in 187 paesi, non ha fatto che confermare la tendenza secondo la quale l’equità nella distribuzione del reddito è in continuo peggioramento. Questo indice prende in considerazione una moltitudine di fattori, dalle differenze di genere all’accesso all’istruzione, alle cure mediche, e tanto altro oltre al reddito.

Nasce in contrapposizione alle analisi che si basano sul puro calcolo economico del prodotto interno lordo, ma non riesce comunque a prendere in considerazione se le persone sono messe nelle condizioni di sviluppare le loro capacità, come la scuola di Amartya Sen ha proposto in questi ultimi anni. I dati che ne emergono restano, tuttavia, significativi per la valutazione delle condizioni di vita nei vari paesi.

In questo rapporto sono contenute anche nuove analisi sulla povertà estrema: circa 1,7 miliardi di persone, alle quali bisogna aggiungere un altro miliardo di poveri che vivono con circa 1 dollaro al giorno. La questione che preoccupa, oltre alla dimensione degli attuali squilibri, è l’andamento che, impietoso, non ha mai accennato ad arrestarsi.

La crisi, infatti, non è di tutti e la ricchezza che si continua a produrre a livello globale finisce nelle mani di sempre meno persone, generando per reazione un continuo aumento della povertà, definitivo controsenso dell’epoca della crescita per la crescita, oggi più finita che mai.

 

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy