La svolta drastica impressa dalla nuova amministrazione americana alla crisi ucraina continua a generare gravi tensioni nei rapporti transatlantici, con la Casa Bianca sempre più decisa a ridisegnare gli equilibri geo-politici degli ultimi decenni e l’Europa, stordita e priva di una reale leadership, alle prese con la nuova realtà con cui dovrà prima o poi fare i conti. Dopo il clamoroso scontro in diretta TV allo Studio Ovale tra Trump e Zelensky della scorsa settimana, il presidente repubblicano ha annunciato la sospensione immediata di tutti gli aiuti economici e militari diretti all’Ucraina. Decisione che ha con ogni probabilità accelerato l’annuncio di martedì della Commissione Europea sul lancio di un programma di prestiti per favorire il processo di riarmo dei paesi membri, ufficialmente per far fronte a una inesistente minaccia russa.

Le iniziative del governo americano sembrano seguire un piano preparato da tempo, ma la fermezza di Zelensky nel respingere le proposte di Washington ha quasi certamente rafforzato la convinzione di Trump e i suoi consiglieri a procedere verso un accordo direttamente con Mosca. In questo quadro, ancora una volta decisamente inopportune sono state le dichiarazioni del presidente di fatto dell’Ucraina nella giornata di domenica su una fine della guerra “ancora molto, molto lontana”. L’uscita di Zelensky è stata accolta da una risposta molto dura da parte di Trump sul suo social network Truth, dove ha scritto che l’ex comico televisivo “non vuole che ci sia la pace fintanto che [il suo regime] ha il sostegno dell’America”.

Queste parole anticipavano un passo deciso verso lo stop agli aiuti americani a Kiev, cosa che è avvenuta nella serata di lunedì dopo che alcuni giornali americani lo avevano anticipato nelle ore precedenti. Come ha spiegato ad esempio l’agenzia di stampa Bloomberg, la decisione avrà conseguenze immediate poiché riguarda anche le armi già in transito verso l’Ucraina e in attesa di essere trasferite in paesi confinanti, come la Polonia. Trump ha aggiunto che la sospensione degli aiuti resterà in vigore fino a quando i leader ucraini “dimostreranno un impegno per la pace in buona fede”.

Una raffica di dichiarazioni durissime ha fatto da contorno alla decisione del presidente americano. Lo stesso Trump ha avvertito che l’America “non tollererà a lungo” l’atteggiamento di Zelensky e del suo regime, mentre il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Mike Waltz, in un’intervista a Fox News ha ricordato che “il tempo non è dalla parte” del leader ucraino, definito poi il “problema” per via del suo rifiuto persistente a “parlare di pace”. Il segretario al Commercio, Howard Lutnick, ha fatto sapere invece che, durante la tumultuosa visita di venerdì scorso alla Casa Bianca, Zelensky è stato informato che gli aiuti finanziari saranno vincolati alla sua disponibilità a impegnarsi in un processo diplomatico con la Russia.

Per cercare di limitare i danni, martedì Zelensky ha provato a fare una parziale marcia indietro. Su X ha espresso dispiacere per l’episodio di venerdì scorso alla Casa Bianca, per poi invocare rapporti più “costruttivi” con l’amministrazione Trump. Non solo, Zelensky ha anche affermato di non volere una guerra infinita e di essere pronto a sedersi al tavolo del negoziato.

La posizione di Zelensky è diventata comunque estremamente precaria. Non solo la Casa Bianca ha fatto sapere in maniera nemmeno troppo velata che la sua uscita di scena è auspicabile e verosimilmente non molto lontana, ma anche sul fronte domestico il presidente di fatto si ritrova a fare i conti sia con gli ambienti neo-nazisti, che non accetteranno nessun cedimento davanti alla Russia, sia con coloro che percepiscono la rottura con Washington come il passo definitivo verso la rovina del paese. In tutto questo, le forze di Mosca approfitteranno del caos innescato dal nuovo corso di Trump per avanzare ulteriormente nelle aree delle quattro province passate alla Russia e ancora controllate dai militari ucraini.

Molti commentatori si chiedono in ogni caso fino a che punto Trump sarà in grado di spingersi nei suoi piani diplomatici e di riconciliazione con la Russia, viste le resistenze all’interno degli stessi Stati Uniti e, soprattutto, tra gli alleati NATO in Europa. Per il momento, le azioni di “lobbying” dei vari Macron e Starmer non hanno prodotto mutamenti nelle decisioni della Casa Bianca. L’ottimismo ostentato da Putin nelle ultime settimane è forse un altro segnale della serietà dell’amministrazione Trump. Una determinazione confermata in questi giorni dalla notizia dell’ordine dato dal presidente ai segretari di Stato e al Tesoro di rivedere le sanzioni che gravano su Mosca, per poi presentare un elenco dei provvedimenti che potrebbero essere annullati.

La portata delle decisioni di Trump è comunque tale da avere letteralmente stravolto i punti di riferimento dell’Europa, i cui (pseudo-)leader si dibattono in una crisi senza uscita e in larga misura creata dalle loro stesse decisioni. Dopo avere sacrificato tutto, incluse le proprie economie, per la crociata ucraina lanciata dall’amministrazione Biden, il voltafaccia di Trump ha distrutto certezze e qualsiasi possibilità di attenuare la caduta, avendo oltretutto girato volontariamente le spalle alle opportunità economiche e commerciali offerte dalla Cina e al motore della propria prosperità con la rinuncia a gas e petrolio russi.

I due vertici convocati in fretta e furia nei giorni scorsi, uno a Parigi e l’altro a Londra, in teoria per ricompattare il fronte occidentale attorno alla causa ucraina si sono risolti in poco o nulla di concreto. I proclami, soprattutto del governo laburista britannico, che annunciano la volontà di inviare militari in Ucraina a garanzia della pace a loro volta privi di sostanza e defunti sul nascere. Anche perché, come ha affermato apparentemente senza auto-ironia il premier Starmer, qualsiasi iniziativa militare in Ucraina della NATO o dell’Europa necessiterà dell’appoggio o della collaborazione statunitense.

In altre parole, mentre i governi europei si agitano per programmare un futuro all’insegna dell’indipendenza strategica da Washington, i piani che stanno studiando per prolungare il conflitto in Ucraina e per garantirsi un peso maggiore nelle decisioni relative alla guerra sono, per loro stessa ammissione, irrimediabilmente dipendenti dagli Stati Uniti. Subordinazione a Washington che si intravede anche dal contenuto delle proposte emerse nei già ricordati summit di Parigi e Londra, in larga misura inapplicabili e del tutto scollegate dalla realtà sul campo.

L’elemento ricorrente è appunto il rifiuto di riconoscere il successo militare di Mosca e di conseguenza la mancata accettazione della Russia come un interlocutore non solo legittimo, ma che si trova in una posizione di forza e perciò in grado di dettare le condizioni della pace. Un atteggiamento che auto-squalifica l’Europa come attore serio nel processo diplomatico nascente e che, inevitabilmente, determinerà la marginalizzazione definitiva del continente nel quadro delineato dai futuri equilibri tra le due principali potenze militari del pianeta.

L’Europa continua insomma a nutrirsi della propria propaganda, facendo credere di avere di fronte un paese fiaccato da tre anni di guerra e, quindi, sul punto di crollare se solo si dovesse insistere con le politiche di sostegno totale all’Ucraina di questi tre anni. Allo stesso tempo, la realtà parallela modellata nel corso della guerra caratterizza Putin e la Russia come pronti e, soprattutto, capaci di invadere uno ad uno tutti i paesi a ovest dell’Ucraina, così da rendere imprescindibile un massiccio processo di riarmo per contrastare una minaccia esistenziale.

Il possibile venir meno dell’ombrella di protezione americana e, appunto, la fantomatica minaccia russa stanno alimentando un disperato dibattito interno alla classe dirigente europea sulla necessità di moltiplicare le proprie spese militari. I numeri che circolano a livello dei singoli paesi e a quello comunitario sono enormi in rapporto alle economie che li dovrebbero sostenere. Alzare la spesa militare al 2%, al 3% o addirittura al 5% del PIL comporta evidentemente la decimazione della spesa sociale in una realtà già segnata in pratica ovunque in Europa da un drammatico deterioramento del welfare.

L’esborso di centinaia di miliardi di euro in presenza di una stagnazione economica che rischia di essere strutturale, anche nel caso rappresentasse un’opzione realistica, non farebbe comunque nulla per garantire all’Europa una qualche competitività sul piano militare con la Russia, come hanno d’altra parte mostrato le dinamiche sul campo in questi tre anni di guerra. L’obiettivo dei governi europei, se si esclude qualsiasi tendenza suicida, potrebbe essere piuttosto di rilanciare l’UE come soggetto in grado di influire sugli eventi globali e ritagliarsi, grazie a una ritrovata potenza militare, un qualche posto nella corsa alla redistribuzione di risorse e territori anche senza la cooperazione degli Stati Uniti.

Sempre gli eventi degli ultimi anni dimostrano tuttavia come queste aspirazioni siano illusorie e, soprattutto, che dovranno essere perseguite contro il volere delle rispettive popolazioni, intensificando quindi la deriva autoritaria già in atto da tempo. È al contrario più probabile che i piani in circolazione in queste settimane finiranno per sciogliersi come neve al sole quando Washington e Mosca avranno raggiunto un accordo sull’Ucraina e sulla possibile nuova architettura della sicurezza in Occidente.

Per il momento, la Commissione Europea mostra di volere procedere spedita in questa direzione. Martedì, la von der Leyen ha annunciato un piano di emergenza per stanziare 150 miliardi di euro da distribuire sotto forma di prestiti ai paesi membri che intendano acquistare armamenti di qualsiasi genere. Il denaro, che potrebbe essere utilizzato anche per trasferire armi all’Ucraina, non fa parte di fondi esistenti ma la Commissione si impegna a indebitarsi ulteriormente per prestare varie quote ai singoli governi. Patto di stabilità e altri vincoli di bilancio sono destinati così a saltare.

Questa tranche rientra in un disegno più ambizioso che punta a sbloccare fino a 800 miliardi di euro nei prossimi anni, senza che nessun governo o leader europeo, né tanto meno la non eletta Commissione, abbia un mandato popolare per farlo. Un progetto, quello in fase di preparazione, che è la diretta conseguenza del terremoto causato dall’amministrazione Trump sull’asse transatlantico, ma che può risolversi sostanzialmente solo in due modi. Il primo è la bancarotta e il crollo della UE sotto il peso dei propri fallimenti e contraddizioni. L’altro è una guerra con la Russia impossibile da vincere e che, allo stesso modo, finirebbe per distruggere l’intero continente.

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