di Mariavittoria Orsolato

E' una Rai paralizzata e in caduta libera quella che da qualche mese vediamo annaspare in viale Mazzini. Il consiglio di amministrazione è scaduto da un pezzo, così come la deadline indicata dal governo per nominarne uno nuovo, e a pochi giorni dalla presentazione agli inserzionisti i palinsesti autunnali non sono ancora stati approvati. Nonostante il premier Monti abbia più volte affermato di voler rivoluzionare la governance della tv di Stato, sottraendola ai capricci dei partiti, le nomine dei vertici d'azienda, anch'esse giunte in ritardo rispetto al previsto, sono state affidate in blocco a tre “tecnici” provenienti dal mondo della finanza e immancabilmente bocconiani.

Presidente, Anna Maria Tarantola, una vita votata a Bankitalia di cui è vice direttore generale dal 2009; direttore generale, Luigi Gubitosi attuale amministratore delegato di Wind, una carriera di spicco in Fiat e alla Merryll-Lynch; consigliere di riferimento per l'azionista - quel ministero dell'Economia che detiene il 99% delle azioni e di cui Monti è titolare ad interim - Marco Pinto, capo di gabinetto del Tesoro. Dalla casta alla banca insomma e, di nuovo, nemmeno la minima ombra di competenza in materia di televisione.

L'iniziativa del premier arriva dopo diversi rinvii e soprattutto dopo le polemiche convulse sulle nomine dei componenti dell'Authority, lo scontro sul decreto sviluppo, i maldipancia manifesti nella maggioranza. Obiettivo, spiega lo stesso Monti, "rendere più efficace ed efficiente la gestione della Rai", avvicinandola al modello delle grandi aziende europee e mondiali. Di qui alcune "limitate ma essenziali" modifiche alla governance, senza però toccare l'intoccabile legge Gasparri: d'ora in poi il presidente della Rai potrà "approvare su proposta del dg atti e contratti aziendali che comportino una spesa superiore ai 2,5 milioni, fino a 10 milioni, e di nominare, su proposta, del direttore generale, dirigenti non editoriali di primo e secondo livello".

Per le nomine editoriali, ci tiene a precisare Monti, "continuerà ad avere competenza il consiglio di amministrazione e questo consentirà il pieno rispetto delle esigenze del pluralismo". Tradotto: il governo e i suoi tecnici si arrogano l'ultima parola in fatto di spese ma la politica può tranquillamente continuare ad ammorbare reti e palinsesti, taglieggiando la dirigenza con la minaccia di fare ostruzionismo.

Toccherà infatti alla Commissione di vigilanza, il parlamentino che governa sui destini della Rai, ratificare a maggioranza qualificata la nomina del nuovo presidente. E, a sentire gli umori che girano, tutto sarà meno che una semplice formalità. Toccherà poi al consiglio d’amministrazione fare altrettanto con quella del direttore generale. Qui a onor del vero, come è stato subito notato da furenti esponenti del Pdl, il governo ha commesso una invasione di campo appropriandosi, con l’indicazione di Gubitosi, di una decisione che invece spetta per legge al cda. Ma tant'è.

L'attuale maggioranza - l'innaturale unione di Pdl, Pd e Udc - ha avuto reazioni certamente scomposte, anche all'interno dei singoli partiti. Fatta eccezione per Casini - deferente ai limiti del ridicolo -  i partiti di Alfano e Bersani hanno esternato pubblicamente le loro perplessità sulle scelte del premier. Perplessità che non riguardano tanto i nomi, promossi quasi unanimemente in seno ai curricula, ma le modalità con cui la Rai dovrebbe cambiare nel tentativo di risanarsi.

Un risanamento che secondo molti dovrebbe partire soprattutto dalle idee, non certo dai conti. Come giustamente affermato dal presidente di Rai Cinema, Franco Scaglia, “la televisione pubblica ha bisogno di essere reinventata, ridisegnata, non certo ridimensionata”. A viale Mazzini ricordano ancora bene il 1993, anno in cui arrivarono i cosiddetti professori con le forbici in mano e l'idea di cambiare tutto: a giudizio quasi unanime quella fu la peggior gestione a memoria dei dipendenti.

Ma la politica ha in realtà poco da lamentarsi. Quello operato da Monti sembra più che altro un  commissariamento e il rafforzamento delle funzioni dei vertici - nominati pur sempre dai partiti, sebbene di governo - è una misura che solo sei mesi fa sarebbe stata giudicata quantomeno “bulgara”, un'imperdonabile abuso di potere da parte dell'esecutivo. I commissariamenti hanno infatti natura transitoria e una volta scaduto il mandato, le cariche ritornano ad essere contese dagli stessi partiti che a quel commissariamento hanno portato.

Perciò, a meno che non si abbia la totale e repentina estinzione della seconda repubblica, a viale Mazzini non si verificherà il cambio auspicato (almeno a parole) dalla classe dirigente italiana. Ed è una sincera stretta al cuore quella che si ha nel vedere la televisione di Stato, gloriosa pioniera delle telecomunicazioni, ridotta come il fegato di Sisifo: a rigenerarsi puntualmente solo per poter essere divorata meglio poco dopo.

 

 

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