di Mariavittoria Orsolato

Contro il recente crollo delle borse e con una crisi globale sempre più galoppante ed insidiosa per le economie nazionali, non c’è asso nelle maniche dei governi primomondisti che tenga. Che l’Italia sia annoverata a torto nella categoria sovranazionale di cui sopra lo hanno dimostrato in questi giorni quanti hanno provato a dare il loro personalissimo contributo per tentare di evitare il baratro finanziario.

Oltre alla manovra anticrisi varata nei giorni scorsi dall’esecutivo – esiziale in quelli che saranno i reali effetti e assolutamente pertinace nell’assicurare l’impunità alle varie “caste” – è da segnalare la brillante idea che Luca Cordero di Montezemolo e Roberto Formigoni hanno lanciato nei giorni scorsi, rispettivamente dalle colonne del Corriere e dallo studio de La Zanzara, programma di punta di Radio24. Secondo questi giganti del pensiero pragmatico (sic!), un’auspicabile alternativa al mettere le mani nelle tasche degli italiani e degli enti locali, entrambi abbondantemente dissanguati, sarebbe la privatizzazione della Rai. Una “ ricchezza facilmente dismissibile” secondo il governatore della Lombardia, paragonabile all’argenteria che le famiglie in difficoltà impegnano e che potrebbe fruttare alle casse statali tra i 4 e i 5 miliardi di euro se venduta al primo Murdoch che passa. Una dovuta azione di credibilità per il leader di Italiafutura che mette da parte il tradizionale aplomb di chi ha un doppio cognome e lancia un nuovo slogan populista: “prima vendete la Rai, poi venite a chiedere soldi”.

La privatizzazione della tv di Stato è considerata la panacea da tutti mali dai tempi in cui al governo c’erano i socialisti: da allora la prospettiva di batter cassa vendendo al miglior offerente il medium nazionale più seguito, ha attraversato i programmi elettorali di ogni schieramento politico, rimanendo però sempre lettera morta. Certo il desistere da tale proposito non ha radice nobile: è l’interesse evidente della lottizzazione politica – con fiction commissionate ad hoc, starlette di ogni genere e sorta da piazzare e “faziosità” da censurare ­– che non permette di prendere in considerazione l’ipotesi di privatizzare. All’intellighenzia nostrana, l’assunto che per garantire la libertà d’espressione sia necessario un network controllato dall’apparato statale non ha mai interessato, né interessa granché, ma è proprio questo il miglior argomento da contrapporre all’idea della privatizzazione in generale e della Rai inparticolare. A riprova di quanto appena affermato, il fatto che nessun partito d’opposizione ne abbia minimamente accennato.

Eppure sono passati appena due mesi dai referendum che hanno sancito la volontà degli italiani di mantenere i beni pubblici tali, di non permettere che siano svenduti a privati in nome di profitti effimeri e assolutamente non risolutivi. Quella politica che aveva osannato il responso delle urne referendarie ha già dimenticato il significato positivo e rassicurante che l’idea di bene pubblico suscita in tempi di crisi e come opposizione alla proposta dei frondisti Pdl avanza timidamente ipotesi di speculazione in termini di contenuti e non di contenitori, come fa Matteo Orfini, responsabile informazione del Pd. Nessuno che si degni di argomentare che in tempi di tracollo economico come questo, la pubblicità dei beni – anche quelli immateriali come il diritto alla correttezza di informazione e ad un intrattenimento scevro da continui richiami privatistici  – rappresenta un’ancora di salvezza e che per far fronte allo shock creato ad arte a fini di predazione, la via della svendita dei beni pubblici e comuni per ottemperare, come ha detto Tremonti, a richieste pervenute “in lingua inglese” è tristemente tafazziana.

Basterebbe veramente poco a smontare le velleità dei Montezemolo, dei Formigoni e dei Della Vedova – che ha già depositato la sua personale proposta di privatizzazione della Rai in Parlamento. Basterebbe scorrere la nostra Carta Costituzionale per dimostrare semplicemente che in Italia per i prossimi cinque anni, privatizzare i servizi pubblici è incostituzionale e non può essere fatto. Con la vittoria dei si e l’abrogazione del decreto Ronchi, che prevedeva stringenti obblighi di privatizzazione del servizio idrico integrato e degli altri servizi pubblici di interesse generale, si esclude per un lustro la possibilità di porre in essere scelte politiche incoerenti con l’esito referendario. Appena due mesi fa  la maggioranza degli italiani ha deciso che dalla crisi si esce con un settore pubblico forte, ben strutturato ed efficiente, e non indebolito da continue privatizzazioni volte solamente a far cassa al di fuori di qualunque pubblico interesse e prive di uno schema giuridico di riferimento. Ma chi ci governa e rappresenta l’ha già dimenticato.

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