di Mariavittoria Orsolato

Tanti, troppi anni fa, la televisione italiana era una delle più pedagogiche al mondo. Le sue finalità erano certamente educative e, se da un lato, non cercando il consenso dei telespettatori, era considerata soporifera, uno dei suoi meriti indubbi è stato quello di approcciarsi con garbo e misura ad una nazione arretrata e culturalmente divisa, cercando di “fare con Mike Bongiorno quello che non riuscì a Garibaldi”.

Dai tempi di Non è mai troppo tardi - il programma di insegnamento elementare condotto dal maestro Alberto Manzi che aiutò quasi due milioni di italiani ad uscire dall’analfabetisno - la televisione nostrana ha seguito un percorso evolutivo nelle tecniche, ma decisamente involutivo nel linguaggio, appiattendosi in troppi casi alla dotta pantomima quando si tratta di mostrare cognizione di causa nell’uso dell’italiano.

La qualità di quanto viene detto in tv non ha sicuramente la forza e l’impatto per farci emancipare linguisticamente o creare essa stessa dei linguaggi ex novo che non siano banali tormentoni alla Zelig. Il livello di quella che è la lingua del “sommo”, quel Dante che diede dignità e splendore al vernacolo, si è quindi molto abbassato ma, nonostante ciò, ci si scandalizza ancora ai limiti del ridicolo per le parolacce che inevitabilmente vengono pronunciate nel “bello della diretta”.

Comitati come il Moige vanno a nozze con episodi come questi e sono molti i casi in cui personaggi ed emtittenti televisive sono state citate in giudizio e condannate a risarcire, o comunque a rettificare, per l’uso troppo disinvolto del cosidetto “linguaggio di strada”, un linguaggio che - per quanto deprecabile - è entrato a tutti gli effetti nel nostro comune vocabolario.

Mentre da noi, quindi, i lacci della cansura si stringono sempre di più, in America la coprolalia in diretta viene sdoganata in nome della libertà di espressione. I giudici della Corte d’Appello di Manhattan hanno infatti dato ragione ai quei network - in testa la Fox del magnate australiano Murdoch - che dopo l’approvazione nel 2004 del regolamento restrittivo ad opera dell’Ente federale sulle comunicazioni di Washington, hanno ricorso appellandosi al Primo Emendamento.

Uno dei motivi scatenanti il testo proposto dal Parental Television Council fu, infatti, una trasmissione in cui la cantante Cher e l’attrice Nicole Richie si divertirono ad elencare in diretta tv tutti i modi n cui è possibile rendere l’idea di andarsene a quel paese.

Secondo il testo prodotto nel lontano 1791, però, “ Il Congresso non farà leggi (…) che limitino la libertà di parola..” e pertanto anche un “fuck off” o un “shit” sono ammessi in quanto libero fluire dell’espressività del singolo. La sentenza stabilisce pertanto che “Proibire ogni tipo di riferimenti chiaramente offensivi al sesso e agli organi sessuali senza definire prima cosa s’intende per offensivo, significa ridurre la possibilità di esprimersi perché i conduttori non hanno idea di cosa può essere permesso o meno” con il risultato perciò di “indurli a praticare l’autocensura”.

Nella motivazione la Corte cita alcuni esempi recenti, come quello di un’emittente del Vermont che durante le elezioni locali ha deciso di non trasmettere una tribuna elettorale in quanto uno dei disputanti usava un linguaggio colorito. Niente più “bip” dunque e niente più ipocrisie. God Bless America.

 

 

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