di Fabrizio Casari

Si attendono con forte preoccupazione gli sviluppi possibili dell’innalzamento della tensione tra Stati Uniti e Corea del Nord. La propaganda bellica, almeno per ora, supera le concrete possibilità di un innesco del conflitto. Nel confronto tra Pyongyang e Washington, entrano con prepotenza le pressioni dei paesi confinanti: Cina da un lato, Corea del Sud e Giappone dall’altro. La missione del Vicepresidente statunitense, Mike Pence, è destinata proprio ad aggiornare e a rassicurare Seul e Tokyo,visto che questi non hanno nessuna intenzione di vedersi rovesciare addosso gli esiti di un conflitto che, dal loro punto di vista e per i loro interessi, non ha ragione di darsi.



Le prossime ore saranno dunque decisive per comprendere sia l’atteggiamento cinese, primo sponsor della Corea del Nord, sia il livello della pressione che gli alleati degli USA nella regione sapranno esercitare per ricondurre la Casa Bianca alla ragione. Trump, infatti, con le sue giravolte sembra alle prese con questioni che non è in grado di valutare e che non gestisce, e rischia di dare il via ad un conflitto che nascerebbe forse come convenzionale ma che potrebbe diventare atomico.

Missili sulla Siria, bombe sull’Afghanistan, flotta aeronavale verso la Corea del Nord, rivalutazione del ruolo della NATO: gli ultimi dieci giorni del Presidente Trump sembrano riportare il mondo in una malsana gita con vista sull’abisso. Si assiste a un brusco e repentino cambio d’indirizzo della politica estera annunciata in campagna elettorale e, vista l’incapacità del personaggio di comprendere gli equilibri politici e diplomatici internazionali, la tensione rischia di salire a livelli davvero pericolosi.

I mutamenti intervenuti nell’agenda di politica estera del tycoon, si devono alle difficoltà in cui si dibatte sotto l’offensiva dei democratici e l’inimicizia di CIA ed FBI che vorrebbero inibirlo quanto prima. A difendere Trump si è candidato il Pentagono e lui, abile speculatore e giocatore d’azzardo, cosciente di non poter contare nemmeno su un partito monolite che lo sostenga, ha prontamente effettuato un cambio di 360 gradi della sua linea politica per salvarsi, divenendo però così ostaggio dell’ala più radicale dei militari e del suo partito. Si è consegnato mani e piedi alle decisioni dei vertici militari statunitensi, che vedono nella escalation della tensione con Mosca la crescita della loro centralità nei processi decisionali statunitensi, con tutto ciò che ne consegue.

Con questo rinnovato ruolo di direzione politica dei neocons nel Pentagono, si profila la riduzione della politica estera a questione militare che riconverte la governance mondiale in una - strumentale ed estesa al mondo intero -“questione di sicurezza nazionale degli USA”. Lo spazio per la politica e la diplomazia si assottiglia: il complesso militar-industriale statunitense appare il vero dominus della politica estera e questo non predispone certo alla fiducia nelle relazioni degli USA con il mondo.

Il Pentagono, del resto, vede la Russia come minaccia principale al suo comando e da ciò fa derivare ogni scelta strategica. Più che la ricerca di un nuovo profilo di leader globale, gli USA sembrano orientati a porsi soprattutto come nemico permanente della crescita di Russia e Cina.

Atteggiamento che dunque spinge Mosca e Pechino a un gioco di reazioni  contro-reazioni senza fine. Se almeno apparentemente l’UE, nano muto tra i giganti, non sente la necessità di ricalibrare le sue scelte di fronte a tanta imperizia e improvvisazione nella lettura degli equilibri geopolitici, Putin e Xi devono riconsiderare le rispettive mosse sullo scacchiere internazionale. Questo sia nello specifico delle relazioni bilaterali con Washington, sia in quelle che coinvolgono anche la gestione delle rispettive aree d’influenza.

L’intensificarsi della cooperazione tra Russia e Cina, basata su scambi di materie prime, commercio, intese politiche e militari, spaventano Washington. D’altra parte due nazioni che rappresentano circa un terzo della popolazione mondiale ed una quota robusta del PIL planetario, dotate di storia politica e militare di natura imperiale, non possono ridursi a spettatori imbelli di una strategia che ne rifiuta la partecipazione al governo internazionale e anzi cerca di consegnarli ai margini del mondo.

Proprio la gestione degli equilibri globali è divenuta la questione principale per un impero che, aldilà dell’atlantismo obbligato, già dagli anni 90 viene ritenuto in molte capitali un paese ormai non all'altezza di ciò che servirebbe dell’Occidente. Non solo dopo la Seconda Guerra Mondiale gli USA non hanno più vinto nessuna guerra, ma anche dove ciò è avvenuto, come in Irak, Washington ha dimostrato che non riesce a chiudere i conflitti che apre con le sue avventure militari e, presidente dopo presidente, vede crescere il livello dell’instabilità politica e militare nei luoghi dove pensava di poter ricondurre a pacificazione forzata attraverso i suoi interventi diretti.

Nella convinzione che l’importante sia comandare e non governare, Washington sostiene regimi feroci, inventa e arma forze irregolari ai quattro angoli del pianeta che poi gli si rivoltano contro, destabilizza paesi che però successivamente diventano più ostili dei regimi deposti. Risulta inadeguata per ogni soluzione politica e conferma la tendenza ormai evidente a presentare gli USA come il problema e non la soluzione.

L’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha ancor più alzato il livello di difficoltà nella gestione della leadership planetaria ed emerge prepotentemente come, per far fronte a una ridotta autorevolezza politica, aumenta ulteriormente la pressione militare. Il che rappresenta non più una contingenza, ma un modello di governo del mondo destinato a porre al centro solo gli interessi strategici statunitensi. Per gli USA del resto, il mantenimento della supremazia militare resta elemento decisivo per la propria ripresa economica.

Le guerre sono da sempre per gli Stati Uniti il principale volano di accumulo di ricchezze e di potere. Così si determinano le grandi scelte politiche, il dissesto e il riassetto di interi paesi e regioni, si ristabilisce il primato della forza come principio che governa le relazioni internazionali. Con le guerre si vendono armi, si fanno affari quando si distrugge e quando si ricostruisce. Si accresce la propria influenza, si ridefiniscono alleanze e si spartiscono territori e risorse. Si controllano le vie di comunicazione e il transito di uomini e merci, l’accesso all’acqua, all’energia e alla biosfera.

La guerra permanente è diventata ormai lo strumento che determina i grandi processi economici, sociali e politici planetari. Il mondo è un luogo infinitamente meno sicuro di quanto non lo fosse quando era diviso in blocchi: il cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale, inaugurato nel 1999, non è mai stato nuovo, né ordinato, tantomeno mondiale. Il nuovo gigante economico e militare cinese, il recupero di un ruolo politico e militare della Russia, nuovi paesi che puntano a leadership regionali in virtù di economie emergenti e persino la proliferazione dei sistemi d’arma in paesi non completamente sotto controllo, sono alcuni degli elementi che hanno messo in discussione direzione politica e centralità del dollaro e, con essi, il dominio statunitense sul mondo.

Per garantire che il controllo planetario resti nelle solite mani, s’impediscono nascita e sviluppo di aggregazioni diverse e alternative a quella atlantista a trazione statunitense. Nessuna autonomia è permessa. La teoria del caos è l’unica ideologia, l’unico modello di governo che un impero in difficoltà utilizza per mantenersi in piedi. Lui ci mette il modello, il mondo ci mette i morti.

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