I partiti nascono per rappresentare istanze culturali e sociali e per tradurle sul piano politico. Di più: i partiti, prima ancora di rappresentare quelle istanze, dovrebbero incarnare un orientamento ideale e perfino filosofico specifico (di parte, appunto) capace di offrire una interpretazione dell’esistente per progettarlo in direzione del futuro. Volendo rovesciare il punto di vista, i partiti, come i movimenti sociali, nascono sotto la spinta di blocchi sociali che chiedono organizzazione e rappresentanza. O per lo meno così è stato nella storia del Novecento, che ha visto nascere in Europa grandi dottrine politiche – il cattolicesimo democratico, il liberalismo, il socialismo - che hanno caratterizzato gli avvenimenti e le grandi trasformazioni della seconda metà del secolo scorso. Da queste tre dottrine sono derivate la maggioranza delle forze politiche e i grandi movimenti sociali che hanno attraversato il Vecchio Continente; sono dottrine che, pur rivisitate, costituiscono ancora la base ideologico-storica di riferimento per i grandi partiti europei.

Ebbene, il nascente Partito Democratico, a cosa si riferisce? A quale impianto teorico e ideale si richiama? E quale blocco sociale, quali interessi e quali aspettative intende rappresentare?
E ancora: quali ritiene siano ormai i limiti che i partiti incontrano nella loro funzione di rappresentanza? Il nascente (così pare) Partito Democratico è il superamento di partiti esistenti o la loro trasformazione? Esprime un’altra esigenza di rappresentanza sociale e culturale o piuttosto intende affermare la necessità di andare oltre quell’esigenza?
Per essere franchi: siamo di fronte ad un’operazione tattica o invece ad un’opzione strategica, capace proprio di mutare il quadro della rappresentanza e della rappresentatività?

Se i partiti sono figli di una scuola di pensiero, di una concezione del mondo e dell’analisi dei processi di trasformazione dello stesso, le procedure organizzative dovrebbero seguire e non precedere la configurazione ideale del progetto. Qui, nel caso del progetto PD, avviene il contrario. Ma anche dal punto di vista del loro essere espressione, per così dire “urgente”, del bisogno di rappresentanza di un blocco sociale, l'erigendo Partito Democratico sembra nascere sulla base di un progetto di ottimizzazione della forza del suo bacino elettorale e, dunque, sulla base di una operazione di marketing politico concepita a tavolino; più l’esigenza di compattare un blocco elettorale che un intento di innovazione del modello di rappresentanza.

I due attori principali del processo sono i Democratici di Sinistra e La Margherita. Figli di una storia che si rifà rispettivamente al pensiero comunista e socialista e alla tradizione democratico-cristiana, risultano ansiosi di ricollocarsi nel mutato quadro politico italiano ed europeo. Ma se il primo ritiene di doversi disfare della sua storia, la seconda la rivendica e la ripropone come attuale e degna di un investimento di prospettiva politica, quasi si dovesse differenziare dal passato solo in forza di un nuovo assetto del sistema politico seguito allo stravolgimento europeo determinatosi nel 1989.

Che sia proprio La Margherita a determinare, tramite veti e paletti, la dimensione teorica del nuovo partito appare abbastanza evidente. I sistemi valoriali su cui le dottrine socialiste e liberali – la cui sintesi (pur difficile da immaginare) dovrebbe essere il portato teorico del nuovo progetto - non sembrano assumere rilievo particolare, soprattutto in ordine alla concezione laica dello Stato. Assistiamo d’altra parte al crescere di un dibattito “eticamente sensibile” che, insieme al pacchetto dei valori irrinunciabili, offre una rilettura del passato che parla di sconfitta palese e totale non solo delle esperienze storiche del socialismo reale, ma del socialismo come sistema valoriale. Non solo della sua esperienza storicamente realizzata, ma della sua idealità tout court.
La senatrice Binetti, esponente di primo piano dei Teodem, (ben più che un sottoinsieme della Margherita) si lancia in riflessioni teoriche e teologiche prima che politiche, prefigurando un’Europa che non c’è. E di più: cancellando il valore del pensiero socialista, nega l’Europa così come si è costituita e, con essa, quello che è stato e rimane il pensiero occidentale europeo.

E’ proprio questo pensiero occidentale europeo, costruitosi dopo la sconfitta del nazismo con la feconda alleanza tra pensiero liberale, cattolicesimo democratico e socialismo, che ha portato conquiste e diritti e ha delineato quel modello economico-sociale che resta un punto di riferimento per tutte le forze progressiste. In sostanza, la revanche teocratica porta dritto tra le braccia delle posizioni cattolico-integraliste del governo americano, un approdo che molto dovrebbe dispiacere alle conclamate esigenze di modernizzazione del paese che gli stessi Ds ritengono il centro di gravità del nuovo aggregato post-ideologico.

Il fatto poi che i Ds confondano il progresso con la modernità è cosa nota, ancorché dolorosa. C’è nel gruppo dirigente dei Ds una lettura politicista che – non da oggi – individua le tendenze all’omogenizzazione del sistema politico in chiave neocentrista. Il che non è privo di senso, né di riscontri oggettivi, ma andrebbe sottolineato che non si ferma l’opzione neocentrista premiando una cultura di moderatismo di per sé potenzialmente neocentrista, né si può spacciare per una volontà di rispondere a esigenze che vengono “dal basso” l’appiattimento al centro. Quanto alle maggiori potenzialità elettorali del moderatismo, esse sono tutte da dimostrare. Ciò che invece è facilmente dimostrabile, è che la fondazione del nuovo partito porterebbe i Ds fuori dall’orizzonte socialista europeo.

Non è ininfluente per il nuovo PD sapere in che direzione sta andando. Entrare o meno nel gruppo socialista europeo non è una opzione di secondaria importanza. Significa sapere se l’Europa deve avere un ruolo politico per il governo di questa fase della globalizzazione o se l’Europa, abbandonando la sua storia, si deve affiancare invece al nuovo pensiero dominante che cerca una nuova alleanza tra principi etici e liberismo guerrafondaio. E significa stabilire se i riferimenti nella concezione dello sviluppo economico guardano al modello renano o, invece, a quello d’oltreoceano; all’economia sociale di mercato o al monetarismo, a Keynes o ai Chicago boys.

In questo senso, la discussione sulla eventuale collocazione a Strasburgo del gruppo parlamentare europeo del PD non è discussione oziosa. Proprio la divisione in gruppi delle forze politiche in seno al Parlamento Europeo rafforza la necessità di una collocazione certa sul piano identitario. E non è tema risolvibile con la proposta della creazione di un nuovo gruppo di incerta denominazione. In qualche modo esente dai bizantinismi della politica italiana, il Parlamento europeo difficilmente riconoscerebbe la trasversalità e l’indistinto come unico elemento identitario del nuovo soggetto politico, al quale peraltro mancherebbe l’estensione geografica continentale in grado di poter garantire, anche tecnicamente, la formazione del gruppo a Strasburgo.

IL COME E IL QUANDO

Detto ciò, sul piano strettamente organizzativo, nel nuovo progetto c’è un ulteriore passaggio che non può essere taciuto: si riferisce al come e al quando, la nuova aggregazione dovrebbe vedere la luce.

Già il come potrebbe suscitare dubbi sulla riuscita dell’operazione, dal momento che se è verissimo che i numeri in politica contano, è altrettanto vero che quando la matematica s’incontra con la politica, è la prima a soccombere. Non sempre, infatti, - anzi quasi mai - la somma matematica dei voti di partenza si traspone nel risultato finale; gli esempi, sia a destra che a sinistra, dal “Fronte Popolare” all’”Asinello”, dalle “Biciclette” alle “Rose nel Pugno”, sono numerosi quanto scoraggianti per l’ingegneria della politica. Non si vuole certo paragonare il peso specifico di queste operazioni, ma il dato empirico rimane. E' come se l’elettorato vedesse con sospetto l’annegamento definitivo del suo peso ideologico in funzione di una operazione elettoralistica.

Il fatto che l’Ulivo abbia raccolto più voti al Senato di quanto la somma di DS e Margherita abbia ottenuto alla Camera, non può essere letto come dato di conferma: nel voto all’Ulivo vi è una spinta unitaria di coalizione, che è cosa molto diversa dall’identificazione con un partito. L’Ulivo è la dimensione unitaria, il luogo dove le differenze si amalgano; il PD è invece unificante, è il luogo dove le differenze si cancellano. Anche per questo l’Ulivo rappresenta, tuttora, un marchio molto più attraente di quello del Partito Democratico.

Le mutazioni genetiche in politica negano in nuce il riconoscimento identitario della scelta che, come ben sanno anche i tecnici del marketing, è elemento decisivo nella formazione della stessa. O, per dirla proprio nel linguaggio del marketing, nella fidealizzazione del cliente verso il brand. Azzerare l’identità per ridurre ad unicum tre scuole di pensiero, tre diversi riferimenti storici e culturali, tre progetti ideali di governance globale, risulterebbe esiziale nei confronti dell’esigenza di rappresentanza ideale e politica che ogni cittadino, pur in porzioni diverse, deposita nella scheda elettorale. Forse servirebbe più identità politica che marketing.

E anche sul quando qualcosa andrebbe esplicitata, visto che in politica i tempi sono decisivi e il quadro politico che si determinerebbe a proposta compiuta, non sarebbe indifferente per l’attuale composizione del centro-sinistra e per le sorti stesse del governo in carica. E qui non sfugge il tentativo, da parte di Romano Prodi e dei suoi più vicini collaboratori, di imprimere sulla nascita del nuovo soggetto politico la loro impronta, e cioè di farne una sorta di dispensa per le emergenze determinate dalle turbolenze della politica. O, se si preferisce un’accezione più nobile, di farne una forza politica che della leadership del professore sia in qualche modo garante.

Qui si misurano anche le differenze profonde all’interno della stessa Margherita, tra il percorso dei Popolari e quello dei Democratici del mai compianto “Asinello”, sui quali interviene a gamba tesa il nuovo aggregato che va sotto il nome di Teodem. Nella scelta dei tempi, nella modalità di costruzione della leadership, nell’idea di formazione delle strutture organizzative, sembra prefigurarsi il tentativo di far nascere il partito del professore come un servizio d’ordine a difesa di una maggioranza per ora gracilina, onde poi dimensionarsi su un futuro riassetto politico. Ma solo una lettura ingenua può non vedere che dietro il PD si prefigura una differente opzione strategica per tutta la coalizione di centro-sinistra, con il paradosso che l’auspicato processo unitario potrebbe rivelarsi come la fine della coalizione stessa. O effettivamente è questo che si vuole?

Un ulteriore elemento e non proprio secondario, di impraticabilità sul terreno della proposta di fusione, è rappresentato dalla possibile "operatività sul terreno" del progetto. La base militante è quasi esclusivamente quella dei Ds, così come le sedi. Sarà davvero così semplice convincere i militanti di un partito che hanno costruito la loro vita principalmente sul bisogno di rappresentanza identitaria, a cedere quote di sovranità e beni costati decenni di sacrifici? Ed è davvero ipotizzabile che l’eventuale forza politica nascente assorba, per incanto, contraddizioni storicamente consolidate, divergenze forti accumulate in decenni di vita politica e culturale del Paese, soprattutto nei territori, per consegnare il tutto a qualche teorico del gazebo democratico? Al contrario, è facile ritenere che la nascita del primo partito post-ideologico possa essere interpretato come la fine delle idealità e di quel bisogno identitario che, ancor più che nella cabina elettorale, è fondamentale nella costruzione della militanza territoriale; senza la coesione di fondo, ça va sans dire, anche le stesse capacità di performance nell’urna risultano seriamente compromesse.

In questo senso sarebbe bene che non si derubricasse l’ipotizzata uscita della sinistra Ds (e perché no, della parte più moderata dei cattolici in direzione opposta) a quota fisiologica di un passaggio politico. Se risulta improprio (e anche un po’ offensivo a dire il vero) parlare di scissione, non è solo perché si scinde ciò che c’è e non ciò che, eventualmente, ci sarà; ma anche perché nel contesto a cui ci riferiamo, l’operazione di scissione vera è quella di chi abbandona la cultura politica del partito che già esiste: e questo, all’oggi, è semmai imputabile ai progettisti del nuovo partito.
Sarà bene ricordare l’esperienza della fine del Partito Comunista Italiano a Rimini, la nascita di Rifondazione; l’entusiasmo e l’adesione massiccia che il nuovo progetto (identitario per eccellenza) scatenarono portando, nel giro di pochi mesi, alla nascita di una forza politica importante per numeri e peso politico, determinò l'affermarsi di un nuovo scenario che vedeva, per la prima volta, lo scatenarsi di una battaglia per l’egemonia a sinistra. Senza la scelta di Bertinotti del 1998, Rifondazione sarebbe oggi a poche unità percentuali di distanza dai Ds sul piano elettorale. E la sua stessa capacità di attrattiva nei confronti dell’ampio quanto variegato “popolo della sinistra”, risulterebbe decisiva negli assetti generali dell’elettorato e, di conseguenza, nell’impianto generale del quadro politico.

La possibilità dunque che la Sinistra DS, orfana di collocazioni politiche esaurienti sotto il profilo identitario e politico, trovi nel nascituro soggetto della "Sinistra Europea" la nuova dimora, potrebbe risultare redditizia sotto il profilo politico ed elettorale, dunque una diminutio in origine del progetto del nuovo Partito Democratico. Sul piano strettamente organizzativo, incideranno anche personalità politiche che hanno lasciato al loro destino il partitino di Diliberto, così come peserà la crisi strutturale dei Verdi. Saranno le scelte di Rifondazione a disegnare la qualità del progetto, fatto salvo che un semplice allargamento del partito di Bertinotti interesserebbe solo una quota ridotta di ceto politico. Mentre invece, un suo aprirsi alla contaminazione generale, azzerando e ricucendo l’ipotesi politica ed organizzativa, potrebbe riportare alla luce quel progetto di egemonia politica a sinistra interrottosi bruscamente nell’ottobre del ’98.

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