Andare “oltre”. Questa pare essere la destinazione del futuro Partito Democratico. Non si spiega dove, ma ci si organizza per andare “oltre”. Quello che si celebra invece al Mandela Forum di Firenze, in contemporanea con le assisi della Margherita a Roma, lungi dall’essere il battesimo di qualcosa, l’inizio del futuro, appare piuttosto la chiusura di un percorso, il sancire il funerale di una storia. Ottantasei anni dopo la nascita del PCI, con le assisi di Firenze chiude bottega la storia travagliata e rivista, più volte aggiornata e corretta, del più grande partito della sinistra italiana.

 

 

Dal prossimo lunedì, in un frastuono di parole, un fatto sarà certo: in Italia non c’è più il maggiore partito della sinistra. Fino a nuove aggregazioni, fino a che aggregati e partitini della sinistra varia non troveranno il coraggio di rimescolarsi ed uscire così dalla dimensione di autoreferenzialità, il sistema politico italiano poggerà su un nuovo centro in competizione con il centro-destra. Con ciò dovranno essere ridisegnate le coordinate politiche del sistema dei partiti, oltre che, inevitabilmente, delle analisi e proposte che nel più grande partito della sinistra avevano una sponda o uno sbocco. Nulla sarà come prima. Nonostante le pretese di continuità con il percorso di revisione ed aggiornamento delle teorie politiche che caratterizzarono il PCI prima e successivamente il PDS e i DS, quella del PD rappresenta una definitiva inversione di tendenza che configura semmai una rottura con le esperienze precedenti.

 

Perché se lo scioglimento del PCI si volle associare al fallimento del socialismo reale, proponendo una robusta virata verso la socialdemocrazia di stampo europeo, e la nascita dei DS aveva come sfondo l’Italia della crisi della Prima Repubblica, oggi con il congresso di Firenze si propone ben altro obiettivo: quello dell’uscita, definitiva, dalla storia della sinistra. Si risolve così – o almeno lo si pensa – l’anomalia italiana, rappresentata da un partito che, per rappresentanza e peso politico, non ha avuto pari nell’Occidente. Preso atto – a parer loro - dell’inadeguatezza dei principi che ispirarono le lotte per un ordine diverso lungo tutto il “secolo breve”, lungo un percorso fatto di abiure e ripensamenti, ci si è accomodati nell’accettazione generale dell’impianto politico, sociale e culturale del neoliberismo. E lo si fa proprio mentre in tutto il mondo lo sfascio generalizzato e le crisi internazionali di questo sistema pongono all’ordine del giorno il suo superamento. Sembra potersi dire che per il gruppo dirigente dei DS la fine delle ideologie pare aver comportato – tout court – la fine delle idee in generale.

Nel '91, con la nascita del PDS, si spiegava che l’uscita dall’orizzonte comunista si rendeva necessaria proprio per sbloccare il sistema politico che, sulla conventio ad escludendum nei confronti del PCI, aveva fondato la sua eterna riperpetuazione. Il rinnovo della classe dirigente e la modernizzazione del Paese, si affermava, servivano anche ad erodere – se non a frantumare – il sistema politico bloccato. Ma, genuine o no che fossero le argomentazioni, giuste o sbagliate che fossero le contromisure, oggi il sistema politico non è più bloccato. Dal 1998 al 2000 ed ora con il governo Prodi, la sinistra è riuscita a governare il Paese: come qualunque coalizione o partito, può governare e il suo operato è oggetto ormai solo di valutazione da parte degli elettori.

Dunque, non è per favorire il cambiamento del Paese che la sinistra smette di esser tale. Si rinuncia proprio ad una “idea” di sinistra, ad una cultura politica che possa rappresentare le aspettative di crescita e di sviluppo per i diseredati e per le classi che vengono escluse scientificamente dal potere, inteso come reticolo d’interessi, difesa degli stessi ed esclusione di coloro che non ne sono portatori. Si è rinunciato a proporre un punto di vista, un’analisi ed una proposta di e da sinistra alla crisi di civiltà che abbiamo di fronte.

Proprio la fine dell’idea di una società all’insegna dell’uguaglianza pare essere la cifra di quella che appare una decisa inversione ad “U” del sistema di valori politici che risiedono alla base del nascituro partito. Ma quando si declina la libertà senza renderla imprescindibile dall’uguaglianza, si concepisce un disegno elitario e classista, che sostituisce i diritti collettivi di cittadinanza con i privilegi di una classe o di una casta. Non è infatti un caso che tanto dal cosiddetto “manifesto” del Pd, quanto dalle ricorrenti frasi dei loro leader (veri o presunti che siano), emerga con chiarezza la diversa natura del riferimento sociale; la persona sostituisce le classi e l’individuo s’insedia nel vuoto contestuale.

Anche sul piano strettamente politico, l’operazione PD non può essere letta in continuità con l’album di famiglia. Criticabile o no che fosse, il compromesso storico di Berlinguer era, nel bene e nel male, un disegno strategico destinato a caratterizzarsi sullo sfondo della tenuta democratica del Paese, che si riteneva messa a rischio da tentazioni autoritarie (non a caso nacque dopo l’esperienza cilena). S’ipotizzò una intesa tra le diverse classi di riferimento che i due partiti rappresentavano, ma mai si prefigurò una idea di possibile fusione tra DC e PCI, la cui espressione “bonsai” appare invece oggi in tutta evidenza una delle caratteristiche dell’unificazione in corso tra DS e Margherita. E lasciamo perdere il tentativo di cimentarsi con temi che non riuscirono a risolvere i padri della Prima Repubblica e affidati oggi a Rutelli e Fassino; l’ironia risulterebbe fin troppo facile.

La verità è che il gruppo dirigente dei DS, che con Occhetto diede il via alla mutazione genetica dei comunisti italiani, si trova oggi, strappo dopo strappo, ad avere il partito lacero. Sedici anni dopo il congresso di Rimini, che abolì il comunismo dall’orizzonte politico del partito, i consensi elettorali sono di fatto dimezzati. Lo stesso dicasi per la Margherita, la cui ambizione di rappresentare la cultura migliore della DC si è infranta sugli scogli del berlusconismo da un lato e sull’abbandono delle caratteristiche migliori della DC stessa dall’altro (per esempio quella relativa alla laicità dello Stato) e dispone oggi di una rappresentanza elettorale che non arriva nemmeno ad un terzo del partito di provenienza.

E se i sondaggi pronosticano correttamente il futuro esito elettorale della nascente creatura concepita in laboratorio, anche l’idea per la quale la somma numerica produce l’unità politica, fa presagire cocenti delusioni. Inutile ribadire il dover “andare oltre” se non si è stati nemmeno capaci di stare qui ed ora. La somma di due gruppi dirigenti fallimentari non genera la nascita di un gruppo dirigente vincente. Semmai le inadeguatezze di entrambi risulteranno accentuate, non superate.

O davvero si ritiene che gli avanzi di due grandi partiti possano produrre un grande partito? Si crede che i problemi irrisolti della società italiana, dove i blocchi conservatori e reazionari impediscono lo sviluppo socioeconomico del Paese siano affrontabili con una operazione d’ingegneria politica? Servono idee forti e interpretazione dei fenomeni strutturali e contestuali, capacità di “visione” e progetti ideali di trasformazione attorno ai quali costruire rappresentanza e leadership politica. Ma sono proprio i grandi assenti dell’operazione. Come annotava Eugenio Scalfari in un editoriale su La Repubblica, è una operazione che “non rinnova né i contenuti, né il rito, né colma la distanza tra la classe politica e la società”.

Si chiameranno tra loro “compagni” o sceglieranno la formula meno impegnativa di “amici” o quella, più credibile, di “colleghi”? Non lo sappiamo ancora, è parte della suspence. Ma è certo che mischieranno grisaglie e tute blu, nostalgie e prestiti, parlamentari e direzioni di Enti pubblici. Impianto teorico, leadership, culture di riferimento sono invece ancora ignoti. Gelosamente custoditi o francamente inesistenti, non appartengono comunque al novero delle questioni sul tappeto. Semmai, si discute su chi farà il segretario o il presidente; se il capo del Governo sarà anche quello del nascente partito o, nell’attesa di sapere dove sarà in Italia, la diatriba è sul dove sarà in Europa. Tutte questioni fondamentali che tengono l’Italia col fiato sospeso.

Per colmo, ci si dice invece che, indipendentemente dallo sviluppo del dibattito dei due rispettivi e contemporanei congressi, identico sarà il documento politico conclusivo. In barba al partito “aperto alle idee di tutti” e dall’avvenire che si trova “oltre”. I riti peggiori, questi si, vengono da lontano. Ma non è detto che vadano lontano.

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