SuperLega, chi era costei? Per fare chiarezza sullo tsunami che ha investito il mondo del calcio bisogna distinguere due piani ormai contraddittori: quello sportivo e quello economico. Dal primo punto di vista, una competizione con il 75% dei partecipanti fissi non può che essere definita una porcheria, in quanto nega il primo valore alla base dello sport: il merito. Se alla Champions League ci si qualifica in base al risultato raggiunto nei campionati nazionali, alla SuperLeague 15 partecipanti su 20 saranno sempre gli stessi, ossia grandi club che si sono auto-selezionati in base al fatturato e ai comuni interessi finanziari. Attenzione: non c’entra nulla il prestigio, è solo business.

 

Nel recinto dorato dei 15, infatti, rientra anche il Tottenham, ricchissimo club di Premier League ma anche squadra perdente per antonomasia. Di contro, manca l’Ajax, che in bacheca ha qualcosa come quattro Coppe dei Campioni.

Sotto il profilo economico, invece, la SuperLega è una rappresentazione perfetta di come il capitalismo attuale risponda alle crisi. In sostanza, di fronte a un modello non più sostenibile – nel caso del calcio, per il crollo delle entrate e l’esplosione di stipendi e cartellini – invece di cambiare il modello si recupera efficienza a danno dei più deboli.

Prendiamo come esempio il club più titolato d’Europa, il Real Madrid. Ad oggi, ogni anno il Real affronta una valanga di partite, è costretto a trasferte scomode per giocare, che so, contro l’Apoel di Nicosia, e poi deve anche spartirsi i diritti televisivi con un mucchio di squadrette, Apoel compreso. 

Con la SuperLega, invece, il Real (come le altre 14 sorelle) giocherebbe meno partite – tutte di cartello, in stadi prestigiosi – e guadagnerebbe anche di più. Il motivo? Facile: la torta (ben più grande dell’attuale, anche grazie al coinvolgimento della prima banca mondiale, l’americana JP Morgan) sarebbe divisa in molte meno fette e per giunta verrebbe tagliata prima ancora di giocare, permettendo una programmazione finanziaria senza sorprese.

Già, perché mentre in Champions League più vai avanti e più soldi incassi, in SuperLega i partecipanti si metteranno d’accordo a monte. Cosicché i club ricchi diventeranno sempre più ricchi e ai piccoli non sarà più concesso nemmeno di sognare. In fin dei conti, non si sono inventati niente: è il caro vecchio scontro fra il mercato regolamentato e le rendite di posizione dei giganti-piglia-tutto.

Nel mondo del calcio, i giganti sono perlopiù emiri arabi, oligarchi russi o fondi d’investimento americani o asiatici, che – direttamente o meno – controllano quasi tutti i club più forti d’Europa. E cosa mai dovrebbe importare a questa gente dei ragazzi di Nicosia, che ricorderanno per sempre di quella partita da sogno contro il Real?

Per fortuna, non proprio tutti ragionano così. Le voci che si sono alzate contro la Superlega sono moltissime (politiche e non), ma nella quasi totalità dei casi l’opposizione si può ricondurre a ragioni economiche. Se ci rimetti, è scontato che tu sia contro. Le sole voci diverse, e per questo tanto più significative, sono quelle del Bayern Monaco e del Borussia Dortmund: di fatto, gli unici colossi del calcio europeo che avrebbero interesse a sposare il progetto SuperLega, ma scelgono di non farlo per convinzione. Del resto, le grandi squadre tedesche sono le uniche che ancora fondano il proprio successo sulle scuole calcio e sullo scouting, prima che sulle spese folli.

Le altre, invece, sono ormai in balia di un grottesco delirio d’onnipotenza. Ricordano un po’ Alberto Sordi nei panni del Marchese del Grillo, quando, salendo in carrozza, si accomiatava dai plebei con la memorabile sentenza: “Mi dispiace, ma io so’ io. E voi…”.

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