Il calcio è luogo per eccellenza del tifo, della faziosità, dell’inaffidabilità di parole ed atti; sono fuorilegge grazia e bon ton, educazione civica e rispetto, detriti dell’epoca in cui c’era un pensiero divenuti ora macigni delle menti schiacciate dalla morte della ragione. Gli eventi di due giorni fa intorno al match Inter-Napoli lasciano sbalorditi e addolorati ma, purtroppo, non sorpresi.

 

L’isteria montata alla vigilia e il nervosismo in campo sono elementi che non si vogliono qui analizzare, afferiscono ad una sfera che rischierebbe di ridurre la gravità di quanto avvenuto fuori e in curva visto che tutti hanno una loro fetta di responsabilità. Sanzioni e parole si sono sprecate e l’ipocrisia l’ha fatta da padrona.

 

 

L’Inter, benché possa essere colpevolizzata solo per quanto riguarda i fischi della curva, non certo per gli scontri svoltisi a due chilometri dallo stadio, giustamente ha scelto di non fare ricorso contro la sanzione pesantissima, decidendo di dare maggiore importanza alla condanna di quanto successo piuttosto che alle ragioni e agli interessi del club.

 

Confondere l’Inter con il razzismo sarebbe grottesco. Per il suo impegno in 22 paesi del Sud del mondo, per la sua stessa storia (nacque da una scissione del Milan di sei consiglieri che non tolleravano il rifiuto di tesserare stranieri e per questo se ne andarono e fondarono appunto una squadra chiamata Internazionale. Il fascismo ne proibì il nome e dovettero chiamarsi Ambrosiana Inter fino alla liberazione).

 

Il comunicato emesso dall’Inter è ottimo ed è stato il più duro mai scritto da una società di calcio in occasioni come queste: ha ricordato valori e storia del club contro ogni discriminazione ed ha invitato chiunque non fosse d’accordo a ritenersi fuori dal mondo interista.

 

Quanto successo a Milano due sere fa è indegno. Due sono gli ambiti nei quali l’idiozia si è resa protagonista assoluta: nello stadio e fuori. Nello stadio una parte della curva nord si è distinto per i fischi a Koulibaly, fuori una truppa di tifosi interisti (e non solo, anche di altre squadre gemellate) hanno assalito pullman di tifosi napoletani a due chilometri dallo stadio Meazza.

 

Un agguato che non aveva nulla a che vedere con la partita ma solo con il razzismo criminale, che è la dotazione ideologica delle bande delinquenziali che operano in quasi tutti gli stadi travestite da tifosi. La domanda è una: si vuole isolarli e colpirli in modo esemplare e fargli passare l’idea di una sostanziale impunità o si preferisce colpire le società di calcio (alcune, mai tutte) che è obiettivo principale del pensiero minimo e inutile?

 

Perché la questione centrale sta nella relazione tra società di calcio e le bande ultrà. Gli interventi legislativi hanno persino peggiorato il quadro, dal momento che la cosiddetta “responsabilità oggettiva” delle società favorisce drammaticamente un modello di relazione ricattatoria. Per gli ultras la squadra è solo un aspetto della loro passione smodata e, a volte, non il principale; è il business dei biglietti che consente loro di mantenersi e lucrare non poco. Vanno dalle società e gli dicono: se non vuoi che ci siano episodi che portino ad una squalifica del campo, e dunque alle sanzioni UEFA che rischiano di far precipitare la squadra agli inferi, ci devi garantire una quota di biglietti ed altri bonus con la quale noi ci manteniamo, perché questo è il nostro lavoro.

 

A quel punto la società di calcio deve scegliere tra una perdita relativa ed un’altra ben più consistente: cosa credete che faccia? E il fenomeno si ripropone all’infinito.

E d’altro canto se si squalificano le curve si deve pensare che ci siano 8-10000 tifosi da punire; ma allora si dovrebbe spiegare cosa dovrebbe fare la società nei confronti di otto-diecimila tifosi. Si dovrebbero schierare migliaia di addetti alla sicurezza, altrimenti come si possono controllare e metterli a tacere? Da ultimo si deve ricordare che la possibilità di fermare ed identificare e trattenere è solo in capo alle forze dell’ordine. Insomma il controllo della società sulle curve e sul tifo organizzato può essere solo parziale e preventivo, di sostegno all’attività di controllo ai tornelli, ma impedire o reprimere comportamenti illeciti resta però compito esclusivo della polizia.

 

A questo proposito giova chiedersi invece come mai la polizia destina solo poche decine di agenti a partita, 100 0 200 al massimo per quelle ad alto rischio. Ma, soprattutto: perché i condannati al Daspo non seguono la partita nel commissariato locale dove risiedono? E non sarebbe il caso di inasprire le pene per i reati di cui si macchiano, a cominciare dal razzismo? Ad esempio, rispondere con i propri beni dei danni procurati non sarebbe di per sè ulteriormente disincentivante?

 

Curioso, infatti, che tutti gli sdegnati di oggi corrispondono ai contrari all’inasprimento del reato di razzismo; che quelli che oggi s’indignano in molti casi siano stati oppositori dell’estensione e dell’applicazione della Legge Mancino. Negli stadi si sentono ogni tipo di cori infamanti e si espongono simboli nazistoidi senza che la polizia intervenga: davvero la società deve essere l’unica a pagare?

 

In mezzo a tanto belare di queste ore, il personaggio più imbarazzante è il Ministro dell’Interno Salvini, tifoso fanatico del Milan - come ci ricorda quotidianamente da un mese in qua - che ritiene di dover incontrare gli ultras invece che con questori e prefetti insieme ai responsabili della sicurezza delle squadre. Salvini si è appena incontrato (con tanto di selfie) con un pluricondannato ultras del Milan e sappiamo benissimo che quello di aprire un canale di dialogo con gli ultras è un modo di far crescere i consensi elettorali. Proprio Berlusconi insegnò con l’acquisto del Milan come il bacino d’utenza della tifoseria vale una rendita elettorale importante e Salvini segue l’onda con il consueto cinismo.

 

Dovrebbe sentire semmai sensi di colpa, visto che sul razzismo e sull’odio ha costruito ed alimenta la sua fortuna politica. Più che il garante massimo della sicurezza, insomma, è l’espressione più nota dei mandanti del razzismo diffuso che, ovviamente, trova spazio soprattutto nelle curve.

 

Che l’ipocrisia rappresenti la cifra esatta dell’italianità non è cosa nuova, dunque inutile stupirsene. Nella politica come negli affari, l’assenza di coerenza e di buon gusto sono elementi imprescindibili per il successo e, nell’era del post berlusconismo, l’indecenza è divenuta ferramenta utile per raccogliere consenso. Speriamo effimero e di breve durata.

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