Il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita continua a essere discusso e analizzato con estrema attenzione in tutto il mondo per le implicazioni che potrebbe avere nello spostamento degli equilibri geopolitici globali. Com’è noto, l’intesa è stata mediata dalla Cina e l’annuncio ufficiale è avvenuto durante un incontro tra i rappresentanti dei due paesi a Pechino. È del tutto evidente, e non solo per l’aspetto simbolico dell’evento, che la posizione internazione della Cina ne esce rafforzata, a discapito degli Stati Uniti. Inoltre, la riconciliazione tra i due rivali avrà un peso non limitato all’ambito ristretto delle relazioni bilaterali, ma potrà teoricamente aiutare a risolvere le svariate situazioni di crisi in Medio Oriente.

Il primo passo verso l’appianamento delle divergenze tra Teheran e Riyadh rappresenta senza dubbio una sconfitta per Washington. La credibilità americana rischia di andare incontro a un nuovo processo di erosione in presenza di un lavoro diplomatico, come quello svolto dalla Cina, che può potenzialmente stabilizzare l’intera regione mediorientale. Il comunicato ufficiale dell’amministrazione Biden in risposta all’accordo ha cercato comunque di esprimere soddisfazione e un’attitudine positiva per qualsiasi sviluppo che aiuti a “ridurre le tensioni”.

La Casa Bianca ha anche ricordato come gli stessi Stati Uniti avrebbero lavorato a questo obiettivo attraverso “un mix di [politiche di] dissuasione e diplomazia”. In realtà, la soddisfazione ostentata nasconde rabbia e risentimento, nonché la consapevolezza dell’ulteriore ridimensionamento del ruolo internazionale di Washington. Il direttore della testata on-line indipendente Consortiumnews, Joe Lauria, ha ricordato però che il declino, accelerato dai fatti dei giorni scorsi, dipende esclusivamente dalle azioni americane.

Mentre la Cina si è adoperata per riavvicinare Iran e Arabia Saudita, gli USA non hanno mai seriamente incoraggiato una soluzione diplomatica alla crisi, ma si sono anzi schierati apertamente per una delle due parti, alimentando la rivalità e confermandosi come una forza destabilizzante per la regione. I fatti del fine settimana a Pechino hanno e avranno così un impatto enorme sui paesi asiatici, africani e latino-americani, messi davanti all’ennesima prova dell’esistenza di un sistema di relazioni internazionali libero dai diktat e dai ricatti di Washington e basato sul dialogo, il compromesso e l’integrazione economica e commerciale, nel rispetto della diversità dei vari modelli di sviluppo.

Implicito in tutto ciò, ha spiegato sul suo blog l’ex diplomatico indiano M K Bhadrakumar, è la realtà di una “Cina come fattore di equilibrio e stabilità globale”. Il riferimento esplicito al ruolo svolto dal presidente cinese Xi Jinping nella dichiarazione congiunta iraniano-saudita, assieme alla citazione di altri paesi mediatori come Iraq e Oman, è di per sé un segnale chiarissimo, visto che lascia fuori dal quadro della riconciliazione quella che “per quasi otto decenni è stata la potenza dominante nelle vicende politiche dell’Asia occidentale”, ovvero gli Stati Uniti.

Ancora Bhadrakumar sottolinea come l’evoluzione degli equilibri geostrategici in Medio Oriente e non solo, a beneficio di Pechino, sia avvenuta in una situazione nella quale gli Stati Uniti occupano una trentina di basi militari nella regione, con decine di migliaia di soldati in pianta stabile. Il logoramento della posizione americana è avvenuto cioè in proporzione inversa all’impegno militare per contrastare i propri rivali, laddove l’influenza cinese si basa invece su una strategia di lungo termine e a tutto campo, privilegiando i rapporti commerciali e gli ambiti energetico e tecnologico, così da accumulare gradualmente quella riserva di “soft power” che ha reso possibile il recente successo diplomatico.

Nelle analisi più interessanti dei fatti di questi giorni si trova quasi sempre il riferimento al conflitto ucraino come una sorta di catalizzatore dei cambiamenti epocali in atto. Sempre l’ex ambasciatore indiano Bhadrakumar ha scritto a questo proposito che la guerra “ha portato in superficie una realtà geopolitica latente creatasi nel corso di decenni durante i quali il ‘Sud Globale’ è giunto al rifiuto delle politiche neo-mercantiliste perseguite dall’Occidente dietro lo slogan dell’internazionalismo liberale”.

La crisi ucraina appare decisiva se si pensa alle resistenze diffuse all’offensiva anti-russa in tutti i continenti ad eccezione di Europa, Oceania e America settentrionale. L’arroganza con cui Washington e la NATO hanno provocato il conflitto e cercato di isolare la Russia, anche attraverso pressioni sulla Cina, ha esercitato un’impressione straordinaria sul resto del pianeta, contribuendo a spostare gli equilibri a discapito dell’Occidente. Non può essere infatti un caso che Teheran e Riyadh abbiano entrambi consolidato i loro rapporti con Mosca dal febbraio 2022. Allo stesso modo, non sembra accidentale la visita in Russia del ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan al Saud, nell’immediata vigilia dell’accordo di Pechino o, ancor più, il viaggio di settimana prossima a Mosca del presidente cinese Xi.

Tornando al piano regionale, almeno in potenza la distensione iraniano-saudita finirà per isolare Israele, i cui ultimi governi hanno puntato moltissimo sulla normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi, a cominciare dalla monarchia wahhabita. Se gli impegni presi a Pechino dovessero concretizzarsi, la creazione di un fronte anti-iraniano in Medio Oriente risulterà virtualmente impossibile, così come diminuiranno in maniera drastica le possibilità per Tel Aviv di tentare avvenute belliche unilaterali contro Teheran. Non solo, fonti coinvolte nei negoziati hanno rivelato al sito libanese The Cradle che il regime di Riyadh intende onorare la cosiddetta “iniziativa di pace araba” del 2002 che vincola la normalizzazione dei rapporti con Israele alla creazione di uno stato palestinese con capitale Gerusalemme.

Alla base della mediazione cinese c’è in ogni caso la necessità di favorire stabilità in Medio Oriente, condizione essenziale per assicurare alla Repubblica Popolare il flusso delle importazioni di petrolio e l’espansione dei propri progetti infrastrutturali in un’area strategicamente cruciale del pianeta. Di riflesso, l’ascendente cinese, assieme a quello russo, attraverso la stabilizzazione dei rapporti tra Iran e Arabia Saudita potrebbe incoraggiare la risoluzione di situazioni di crisi nella regione, spesso alimentate dagli stessi Stati Uniti.

Uno dei teatri in cui si misurerà il successo della mediazione cinese è quello dello Yemen, dove Riyadh combatte dal 2015 una sanguinosa guerra di aggressione contro i “ribelli” Houthis, appartenenti a una setta riconducibile allo sciismo e più o meno appoggiati dalla Repubblica Islamica. Potrebbe essere anzi il tentativo di districarsi dal pantano yemenita ad avere spinto l’Arabia Saudita a ristabilire i rapporti con Teheran, come confermerebbero recenti rivelazioni sull’opinione contraria di Washington a una soluzione diplomatica nel più povero dei paesi arabi.

Un altro fronte da monitorare è quello libanese. Qui è in corso da mesi una disputa politica sull’elezione del nuovo presidente, con Hezbollah e i partiti appoggiati da Riyadh che si scontrano senza risultati in attesa di un accordo tra i loro punti di riferimento regionali. Discorso simile vale per la Siria. La casa regnante saudita ha recentemente lanciato messaggi circa la piena “riabilitazione” del governo di Assad – sostenuto dall’Iran – dopo oltre un decennio di guerra alimentata principalmente da Riyadh, oltre che da Washington.

Il respiro regionale dell’intesa siglata venerdì a Pechino è d’altra parte insito nel documento sottoscritto dai due (ex) rivali. Iran e Arabia Saudita intendono impegnarsi per risolvere i conflitti mediorientali, alla luce anche dell’enfasi data dall’accordo alle questioni della “sicurezza”. Di questo aspetto ne ha parlato ad esempio The Cradle, richiamando l’attenzione sui protagonisti del vertice di Pechino. A sottoscrivere l’accordo sono stati infatti i rappresentanti di vertice dei Consigli per la Sicurezza Nazionale dei due paesi, accompagnati nella capitale cinese da esponenti delle rispettive agenzie di intelligence.

Per comprendere infine le ragioni dell’Arabia Saudita è sufficiente pensare al coinvolgimento nelle dinamiche multipolari sotto la leadership del principe ereditario Mohammad bin Salman (MBS). Dalla collaborazione con la Russia sulle politiche petrolifere nel quadro del “OPEC+” all’aspirazione a entrare a far parte dei BRICS, fino alle tensioni con Washington, i sauditi giocano da tempo su più tavoli per ricavare il massimo in funzione delle ambizioni di trasformazione del paese. Un progetto futuro, quello della casa regnante, che richiede stabilità e garanzie di sicurezza. Requisiti che corrispondono sempre più alle proposte provenienti dall’asse Mosca-Pechino(-Teheran) e sempre meno a quanto ha ormai da offrire un’America e un Occidente avviati verso il declino.

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