La prevista caduta del governo di minoranza francese del primo ministro François Bayrou all’Assemblea Nazionale lunedì aggrava una crisi politica senza ovvie soluzioni e che il presidente Macron dovrà cercare ora di risolvere nonostante un livello infimo di gradimento tra la popolazione. I francesi hanno chiarito, e nei prossimi giorni continueranno a chiarire, il loro netto rifiuto delle politiche di austerity e di riarmo che l’Eliseo e tutta la classe politica europea intendono imporre. Un debito pubblico quasi fuori controllo e le pressioni dei mercati escludono però un cambiamento più o meno radicale delle priorità economiche e sociali transalpine, quanto meno negli scenari attuali.

In meno di un anno, la camera bassa del parlamento di Parigi ha dunque sfiduciato due governi, dopo che questa eventualità non era mai accaduta in quasi settant’anni di Quinta Repubblica. Ciò dà evidentemente la misura della crisi del sistema francese. Crisi che Bayrou aveva descritto con toni da catastrofe sia nel suo discorso in aula prima della sfiducia sia nelle settimane precedenti, durante le quali aveva cercato di salvare la sua proposta di bilancio fatta di circa 44 miliardi di tagli alla spesa sociale.

Macron ha ricevuto le dimissioni in via ufficiale da Bayrou nel pomeriggio di martedì e il suo ufficio stampa ha fatto sapere che il presidente procederà con la nomina di un nuovo primo ministro “nei prossimi giorni”. C’era ovviamente un’accesissima discussione sulla stampa d’oltralpe e non solo attorno al nome del candidato, visto il percorso strettissimo che dovrà percorrere per arrivare alla fiducia. Un nuovo tentativo con un capo del governo pescato dagli ambienti gollisti/conservatori ricalcherebbe i fallimenti di Barnier e Bayrou, ma il presidente francese ha fatto esattamente questa scelta sempre martedì, affidando l'incarico al ministro della Difesa, Sébastien Lecornu.

Nel mirino di Macron sembravano poter esserci i voti del Partito Socialista (PS), ma per intercettarli sarebbe servito un moderato tendente verso il centro-sinistra che avesse fatto qualche concessione in materia di bilancio, ovvero allentando parzialmente il dogma del rigore. Il PS chiedeva invece un primo ministro scelto tra i propri ranghi, ma questa eventualità avrebbe comportato la rinuncia da parte di Macron al controllo sulle politiche economiche e potuto oltretutto spaccare il partito del presidente, con i deputati più spostati a destra poco disposti ad appoggiare il nuovo governo, per non parlare dei gollisti del partito Les Républicains.

In linea di massima, visto il discredito del presidente e la pesantezza delle scelte imposte dal rigore che si prospettano, saranno in pochi a volere associare il proprio nome al prossimo esecutivo, considerando che a marzo 2026 sono previste le elezioni amministrative. L’ex Fronte Nazionale – ora Rassemblement National (RN) – chiedeva da parte sua lo scioglimento del parlamento e il voto anticipato, sperando che l’impopolarità di Macron e dei partiti che hanno sostenuto gli ultimi due disastrosi governi avrebbe permesso di sfondare il blocco che nelle ultime elezioni aveva limitato i seggi vinti dall’estrema destra in seguito a patti e strategie varie messe in campo nel secondo turno.

La sinistra de “La France Insoumise” guidata da Jean-Luc Mélenchon invocava invece le dimissioni dello stesso Macron e un cambio totale degli orientamenti del futuro governo francese. Il presidente in carica aveva d’altra parte ignorato i risultati delle elezioni anticipate dell’estate 2024, nelle quali l’alleanza di centro-sinistra aveva ottenuto la maggioranza relativa, insistendo su un primo ministro conservatore e su un programma economico di austerity. A questo scopo, Mélenchon intende fare leva sugli scioperi e le proteste che a partire da mercoledì si terranno in tutta la Francia.

I numeri usciti dal voto di sfiducia di lunedì disegnano comunque chiaramente la natura dello stallo creatosi a Parigi. Bayrou aveva bisogno del sostegno di almeno 288 deputati, ma ha ottenuto appena 194 voti, mentre 364 sono stati quelli contrari che hanno decretato la caduta del suo governo. Questi dati rispecchiano una realtà nella quale i detentori del potere intendono in tutti i modi implementare misure anti-sociali e guerrafondaie avversate dalla stragrande maggioranza della popolazione. Invece di riconoscere la realtà, Macron e il suo partito insistono nel trovare un meccanismo per ottenere il via libera ai tagli e all’aumento delle spese militari che i primi dovrebbero finanziare. La scelta di Lecornu conferma in definitiva la priorità della militarizzazione del bilancio, oltre che dell'austerity.

Anche alla luce dei numeri in parlamento, le alternative non sono quindi molte né incoraggianti. È chiaro che una nuova accelerazione in senso autoritario resta sul tavolo, magari con l’occasione di eventuali disordini, scontri o provocazioni nel corso delle imminenti manifestazioni di protesta. Un’altra opzione potrebbe essere quella di fare alla fine qualche concessione trascurabile in materia di bilancio, così da convincere ad esempio i socialisti a entrare o appoggiare un nuovo governo comunque orientato al rigore. La campagna mediatica in corso, le pressioni di mercati ed Europa per la riduzione del debito pubblico francese potrebbero facilmente fare breccia in determinati ambienti politici francesi, a cominciare appunto da un partito organico al sistema come il PS.

La radicalizzazione dello scontro sociale e l’identificazione di Macron e dei partiti tradizionali con le élites neoliberiste e guerrafondaie porta sempre con sé anche il pericolo di uno sfondamento dell’estrema destra. La Le Pen e il suo Rassemblement National ostentano un certo populismo economico che appare superficialmente opposto all’austerity, così come mantengono posizioni più caute sul conflitto ucraino e l’isteria anti-russa. Come dimostra anche l’esperienza italiana, l’eventuale approdo al governo di forze neo-fasciste in apparenza anti-sistema finisce tuttavia per rendere queste ultime lo strumento delle suddette élites per implementare le stesse politiche anti-sociali e anti-democratiche che la debolezza precedente del sistema non aveva consentito.

Le effettive possibilità di cambiamento in senso progressista restano così riposte in gran parte nella determinazione alla lotta di lavoratori, studenti e classi medie che, in Francia, inizieranno una nuova mobilitazione mercoledì con lo slogan “Blocchiamo tutto”. Come dimostrano dichiarazioni varie di esponenti di vertice delle forze di polizia e di membri del governo uscente, circola nelle stanze del potere a Parigi parecchia inquietudine per le esplosive tensioni sociali pronte a scoppiare. Soprattutto, i timori riguardano la possibilità che proteste e scioperi sfuggano al controllo di partiti di sinistra e sindacati, minacciando la stabilità del sistema stesso. L’altra possibilità è che il caos apra la strada alla repressione o a tentazioni autoritarie, sotto la regia di un presidente ultra-screditato che ha esaurito le carte democratiche da giocare di fronte all’opposizione di praticamente tutta la Francia.

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