Le politiche energetiche suicide implementate deliberatamente dall’Europa dopo l’esplosione della guerra in Ucraina si erano fin qui accompagnate all’esile speranza di potere essere in qualche modo invertite in un imprecisato futuro. Questo auspicio è in buona parte svanito questa settimana con l’accordo sottoscritto tra Russia, Cina e Mongolia per la costruzione del gasdotto “Forza della Siberia 2”, che andrà a raddoppiare quello dello stesso nome già esistente, consolidando la partnership energetica tra Mosca e Pechino, nonché gli orientamenti strategici russi verso oriente. Infatti, il gas extra che andrà ad alimentare l’economia cinese, e in parte quella mongola, verrà estratto direttamente dai giacimenti che rifornivano l’Europa, e in particolare la Germania, prima delle scelte autolesioniste fatte dalla sua classe dirigente.

Di questo gasdotto di parla da quasi due decenni e il passo fatto tra i tre governi coinvolti è legalmente vincolante, anche se devono essere ancora definiti aspetti chiave come il costo delle forniture, il finanziamento delle infrastrutture e i tempi di realizzazione. A dare la spinta decisiva alla finalizzazione del progetto da quasi 14 miliardi di dollari, convincendo Mosca a superare dubbi e incertezze, è stata in larga misura la presa d’atto della chiusura occidentale alle opportunità energetiche offerte dalle risorse russe. La decisione di lanciare definitivamente “Forza della Siberia 2” rappresenta di fatto un dirottamento verso est della parte più consistente delle direttive energetiche che per decenni hanno contribuito al benessere economico europeo.

Il futuro gasdotto sarà lungo 2.600 chilometri e collegherà la Siberia occidentale al cuore industriale della Cina settentrionale, passando attraverso la Mongolia. Il tratto mongolo si chiamerà Soyuz Vostok e una certa quantità di gas potrà essere ceduta ad acquirenti di questo paese. “Forza della Siberia 2” potrà trasportare fino a 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno, ovvero una quantità di poco inferiore a quella fornita dalla Russia alla Germania tramite il gasdotto Nord Stream 1 prima di essere fatto saltare in aria.

Non è solo la stessa quantità spostata da ovest e est a segnare lo stravolgimento della mappa energetica euroasiatica, ma anche il fatto che il gas che viaggiava attraverso il Nord Stream 1 e che nei prossimi anni arriverà in Cina viene estratto dagli stessi giacimenti della regione di Yamal. Il rafforzamento dei rapporti energetici tra Russia e Cina non ha solo un valore simbolico, ma incide appunto concretamente sui calcoli europei in questo ambito e in una realtà già segnata da una gravissima crisi che sta erodendo la competitività e la tenuta economica del Vecchio Continente. Oltretutto, con poche speranze di invertire la rotta in futuro anche in caso di soluzione diplomatica al conflitto ucraino o di normalizzazione delle relazioni con Mosca.

Per l’Europa non si tratta quindi della sola perdita di forniture vitali a basso costo, ma di una disastrosa rottura strategica segnata appunto dallo spostamento a oriente del baricentro energetico del paese con le maggiori riserve di gas naturale al mondo. Come accennato all’inizio, il nuovo gasdotto andrà ad aggiungersi al “Forza della Siberia 1” già esistente e che ha raggiunto la sua capacità massima di 38 miliardi di metri cubi all’anno. La Russia ha a questo proposito annunciato che questo gasdotto raggiungerà presto la quota di 44 miliardi di metri cubi. Complessivamente, quando i due impianti saranno a regime e considerando anche le altre rotte di fornitura, la Cina importerà oltre 100 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno, un volume cioè non molto lontano da quello importato dall’Europa prima della crisi ucraina.

È quindi abbastanza chiaro quali governi abbiano operato scelte strategiche vincenti e quali fallimentari in questi anni, così come chi sarà a beneficiarne economicamente. Il “CEO” di Gazprom, Alexey Miller, ha anche aggiunto che il gas dirottato dall’Europa verso la Cina – e la Mongolia – avrà un prezzo più basso per i nuovi acquirenti, visti i costi ridotti per via della minore distanza. Giusto per ricordare l’impatto delle scelte suicide europee dopo avere provocato la guerra in Ucraina, alcuni studi hanno stimato la perdita in termini di PIL nel Vecchio Continente a causa del venir meno delle forniture di gas russo attorno al 2%. I prezzi del gas sono invece almeno raddoppiati, visto che per compensare è stato necessario ricorrere al più costoso gas liquefatto, in particolare quello americano.

Le dinamiche che stanno ridisegnando la mappa energetica euroasiatica si collegano direttamente a quelle alla base della decisione cinese di moltiplicare le importazioni di gas dalla Russia. Un flusso via terra in quantità così ingenti garantisce una certa sicurezza in prospettiva futura. Il controllo cioè da parte degli Stati Uniti dei “colli di bottiglia” delle rotte marittime, da cui passa il gas naturale liquefatto importato dalla Cina, rappresenta un rischio crescente nel quadro della sempre più aspra competizione tra Washington e Pechino. In caso di guerra aperta, la leadership cinese non sarebbe così esposta a shock energetici dovuti alla eventuale mobilitazione militare americana per bloccare le importazioni di gas naturale. La situazione esplosiva in Medio Oriente rende inoltre incerte ed esposte a seri rischi le forniture dirette da questa regione verso la Cina.

Queste priorità hanno fatto passare in secondo piano le paure per una possibile dipendenza energetica dalla Russia. L’offensiva soprattutto americana per cercare di contenere la “minaccia” cinese ha in sostanza messo la partnership strategica tra Mosca e Pechino totalmente su un altro livello, come hanno nuovamente confermato i recentissimi eventi andati in scena in Cina. Quali paesi o blocchi beneficeranno nel prossimo futuro dei nuovi equilibri energetici, così come dei progressi nell’integrazione multipolare in atto e ad essi inestricabilmente connessi, non è difficile da immaginare.

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