Segnali contraddittori continuano ad arrivare dal fronte diplomatico russo-ucraino, con l’amministrazione Trump che evidenzia sempre più segnali di impazienza di fronte alla fermezza di Mosca e alle resistenze di Kiev ad accettare un accordo per mettere fine alla guerra che, inevitabilmente, si prospetta ben poco vantaggioso. A Londra doveva andare in scena mercoledì un vertice cruciale tra i sostenitori di Zelensky per discutere di quella che la Casa Bianca ha presentato come l’offerta “finale”, concordata presumibilmente nei giorni scorsi con il Cremlino. Dopo la rinuncia già annunciata ieri del segretario di Stato USA, Marco Rubio, e dall’inviato del presidente, Steve Witkoff, il summit è alla fine sostanzialmente saltato, con gli organizzatori che lo hanno “declassato” a un incontro tra funzionari di rango più basso dei governi partecipanti.

Ciò di cui si sarebbe dovuto discutere era in pratica in quali forme e modalità l’Occidente e l’Ucraina incasseranno la sconfitta definitiva, anche se si sta cercando in tutti i modi per  rinviare ulteriormente l’appuntamento con la realtà dei fatti. La delegazione inviata da Zelensky a Londra sembrava infatti intenzionata a cercare di prendere tempo e convincere Washington ad adoperarsi per una tregua di un mese, rimandando le decisioni cruciali in grado di gettare le basi per la conclusione definitiva della guerra. A essere decisive potrebbero essere così le prossime decisioni di Trump, soprattutto se la minaccia di abbandonare semplicemente la causa ucraina dovesse alla fine concretizzarsi.

Praticamente quasi tutti i principali media americani e inglesi hanno in questi giorni proposto una loro “esclusiva” sullo stato dei negoziati. Il moltiplicarsi delle notizie che vorrebbero dare una prospettiva più o meno definitiva della vicenda ha suscitato però parecchi dubbi tra gli osservatori indipendenti. È toccato al portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, riportare alla realtà la comunità internazionale, quando in un’intervista all’agenzia di stampa russa RIA Novosti ha messo in guardia dal proliferare di “fake news” sul conflitto ucraino, apparse anche su “pubblicazioni rispettabili”.

Il riferimento immediato era a un articolo del Financial Times, nel quale si sosteneva che Putin sarebbe pronto a congelare l’attuale linea del fronte nel Donbass come gesto di disponibilità per arrivare a un accordo di pace definitivo. Secondo il giornale finanziario britannico, il presidente russo avrebbe esposto la propria proposta all’inviato della Casa Bianca, Steve Witkoff, durante il recente faccia a faccia tra i due a San Pietroburgo. Il Cremlino non ha evidentemente confermato la notizia ed è poco probabile che l’offerta di Putin abbia avuto luogo, dal momento che, nella forma esposta dal Financial Times, comporterebbe l’abbandono di quelle porzioni degli “oblast” passati alla Federazione Russa – Luhansk, Donetsk, Kherson, Zaporhyzhia – ancora sotto il controllo ucraino. Ovvero la rinuncia a una delle condizioni imprescindibili che Mosca aveva stabilito per raggiungere un accordo di pace.

Un altro tassello del puzzle diplomatico circolato sulla stampa è la richiesta fatta dagli Stati Uniti all’Ucraina di riconoscere la Crimea come definitivamente parte della Russia, assieme al controllo “di fatto” dei territori delle quattro regioni già ricordate e attualmente controllate anch’esse da Mosca. In un intervento pubblico, Zelensky martedì ha però nuovamente escluso questa ipotesi, confermando come ci siano ancora resistenze ad accettare la realtà sia tra i suoi sostenitori in Europa sia tra gli ambienti neonazisti interni. Questa presa di posizione è stata criticata duramente da Trump nella giornata di mercoledì. Il presidente americano ha accusato Zelensky di volere boicottare i negoziati di pace, allungando la striscia di morte e distruzione.

L’ex comico ucraino ha elaborato il suo pensiero spiegando che l’eventuale discussione circa la sovranità sulla Crimea rischierebbe “solo di prolungare il conflitto”. Questa frase appare appunto come l’ammissione delle conseguenze nefaste per il suo regime che avrebbe un qualche riconoscimento “de facto” o, addirittura, “de jure” del possesso russo dei territori che facevano parte dell’Ucraina. Si potrebbe trattare in definitiva di un messaggio di disperazione ed è quasi inevitabile che sia così vista la strada senza uscita in cui si trova Zelensky, stretto tra una guerra ormai persa che minaccia di devastare ulteriormente il suo paese e le pressioni delle frange estremiste indigene che non accetterebbero nessun compromesso.

Il sentiero per Zelensky è insomma angusto e le sue dichiarazioni riflettono questo dilemma. Su insistenza dell’amministrazione Trump, Kiev deve tuttavia mostrare una certa flessibilità, come ha fatto ancora martedì Zelensky nel corso di una conferenza stampa, affermando di essere pronto a discutere direttamente con la Russia, ma solo dopo l’implementazione di un cessate il fuoco. La posizione di Zelensky è però l’ennesima riproposizione del congelamento della guerra, che il governo russo ha ribadito fino alla nausea di non essere disposto ad accettare.

Il sito americano Axios ha scritto invece che Trump si aspetta una risposta da parte ucraina alla proposta finale sottoposta dalla sua amministrazione il 17 aprile scorso durante un vertice multilaterale tenuto a Parigi. Anche in questo caso, Zelensky dovrebbe fare “importanti concessioni”, a cominciare sempre dal riconoscimento della Crimea russa e degli altri territori come già spiegato in precedenza. L’Ucraina, inoltre, non potrà entrare nella NATO e le sanzioni imposte in questi tre anni alla Russia verranno sospese.

Un ulteriore problema per Zelensky è che alcune delle condizioni favorevoli all’Ucraina previste dalla proposta Trump difficilmente saranno ratificate da Mosca. La prima è la forma che assumeranno le “robuste garanzie di sicurezza” descritte dall’articolo di Axios, che dovrebbero includere una missione di peacekeeping a cui parteciperebbero anche alcuni paesi europei. Questo punto, così come altri contenuti dell’offerta di Trump, risultano piuttosto vaghi, ma la Russia ha sempre escluso la presenza di militari NATO in Ucraina per garantire il rispetto di un futuro accordo di pace.

L’arma più efficace per spingere Kiev e l’Europa ad abbandonare le velleità di prolungare il conflitto potrebbe essere rappresentata dai segnali di impazienza che arrivano da Washington. Il segretario di Stato Rubio settimana scorsa aveva avvertito che gli Stati Uniti potrebbero abbandonare semplicemente gli sforzi diplomatici se non ci saranno progressi significativi nei prossimi giorni. Il governo USA si comporta come se fosse un mediatore neutrale nel conflitto, anche se la precedente amministrazione ha fatto di quella in corso una vera e propria guerra americana contro la Russia, combattuta dalle forze armate ucraine.

Al di là di ciò, questo aspetto rende comunque ancora più minacciosa per Zelensky l’eventuale uscita di scena della Casa Bianca dal conflitto ucraino, perché la tenuta di Kiev in questi anni è stata possibile solo grazie all’impegno militare e finanziario americano. È chiaro che sul file ucraino la stessa amministrazione repubblicana è attraversata da divisioni, anche perché gli ambienti “neocon” sono in essa ben rappresentanti. La priorità di Trump resta tuttavia il disimpegno dall’Ucraina, la normalizzazione dei rapporti con Mosca, quanto meno per il futuro immediato, e lo spostamento di attenzione e risorse verso la “minaccia” cinese.

In ultima analisi, sono gli Stati Uniti a dover decidere se dare l’impulso decisivo alla diplomazia, dimostrando di prendere in considerazione in maniera onesta le legittime esigenze strategiche russe, a tutti gli effetti alla base della guerra provocata da Washington e dall’Europa. Senza rimettere in discussione il ruolo della NATO e il suo allargamento verso i confini russi, nonché più in generale l’architettura complessiva della sicurezza europea, nessuna concessione superficiale né tantomeno le minacce nei confronti di Mosca riusciranno a risolvere la crisi. La Russia, da parte sua, proseguirà la “guerra di attrito” contro l’Ucraina, almeno fino a quando non ci sarà finalmente una proposta seria sul tavolo nei negoziati.

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