Il numero uno del Pentagono, Pete Hegseth, è ripiombato in un vortice di polemiche dopo la pubblicazione nel fine settimana di due articoli su altrettanti media ufficiali che hanno messo ancora una volta in discussione il suo ruolo alla testa della macchina da guerra americana. L’ex “anchor” di Fox News è finito questa volta sotto il fuoco incrociato di New York Times e Politico in relazione a nuovi particolari sullo scandalo del mese scorso della chat di Signal, dedicata all’aggressione militare contro lo Yemen, e alle durissime accuse rivoltegli da un ex funzionario del dipartimento della Difesa.

I dubbi sulle capacità e le attitudini personali di Hegseth erano emersi pubblicamente già all’indomani della sua nomina da parte di Trump e ciò che sorprende può essere se mai che i problemi stiano cominciando ad accumularsi già dopo poche settimane dall’assunzione dell’incarico. Tuttavia, ci sono svariati elementi che spingono a credere nell’esistenza di una campagna coordinata per screditare ulteriormente il segretario alla Difesa e costringerlo alle dimissioni o per convincere il presidente a rimuoverlo nel più breve tempo possibile.

L’articolo uscito domenica sul Times accusa Hegseth di avere condiviso informazioni militari sensibili sul bombardamento USA contro lo Yemen del 15 marzo scorso in una chat di Signal che includeva tredici membri, tra cui la moglie, Jennifer, il fratello, Phil, e il suo avvocato personale, Tim Parlatore. Il gruppo era stato creato dallo stesso Hegseth, che vi accedeva usando il suo telefono privato e non quello governativo. La moglie del segretario alla Difesa lavora per la produzione di Fox News, mentre il fratello e il suo legale ricoprono incarichi all’interno del Pentagono. Entrambi questi ultimi, così come la consorte di Hegseth, non avevano però nessun titolo per essere messi a conoscenza anticipatamente dei particolari di un’operazione militare all’estero.

La nuova polemica che sta investendo Hegseth si concentra ancora una volta sugli aspetti legati alla segretezza delle informazioni militari e i presunti rischi che la diffusione più o meno pubblica di esse potrebbe provocare per il governo di Washington. Gli elementi molto più gravi relativi alla totale illegalità dell’aggressione contro un altro paese e alle vittime civili che ha causato restano invece accessori che praticamente nessuno dei media “mainstream” ha ritenuto necessario evidenziare.

Hegseth, come spiegato all’inizio, è comunque già al centro di un’indagine ufficiale riguardante una prima chat di Signal in cui si discuteva sempre della guerra contro il governo di Ansarallah in Yemen. Questa era limitata a membri dell’amministrazione Trump, ma il consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente, Mike Waltz, aveva aggiunto al gruppo, presumibilmente per errore, il direttore del magazine “neo-con” The Atlantic, Jeffrey Goldberg, che, rigorosamente dopo i bombardamenti di cui si discuteva nella chat stessa, ne aveva condiviso in parte i contenuti sul suo giornale. Anche il ruolo della moglie era già stato oggetto di critiche, visto che Hegseth le aveva consentito di partecipare ad alcune riunioni “sensibili” con esponenti militari di altri paesi.

L’altro attacco del fine settimana contro il numero uno del Pentagono, uscito sulla testata on-line Politico, porta la firma dell’ex alleato del segretario, John Ullyot, dimessosi dal suo incarico nell’ufficio “affari pubblici” del dipartimento della Difesa qualche settimana fa. Ullyuot ha scritto che la situazione al Pentagono è di “caos totale”, a causa soprattutto della raffica di licenziamenti che Hegseth ha ordinato. Il personale messo da parte, inoltre, è oggetto di campagne anonime di discredito, orchestrate dai fedelissimi del segretario. Il clima venutosi a creare avrebbe generato così confusione e difficoltà nella gestione degli affari correnti. Per questo, ha auspicato Ullyot, il presidente Trump dovrebbe prendere la decisione di rimuovere Hegseth.

Quest’ultimo, da parte sua, è subito passato al contrattacco, sostenendo che gli articoli del fine settimana, usciti su “media che avevano propagandato la farsa del Russiagate”, farebbero parte di un’offensiva coordinata da mettere in relazione al recente licenziamento, da parte dello stesso Hegseth, di tre esponenti di alto livello del Pentagono perché accusati di avere passato informazioni riservate alla stampa.

La portavoce della Casa Bianca e anche Trump in prima persona hanno per il momento espresso piena fiducia in Hegseth, mentre prevedibilmente le ultime polemiche sono state sfruttate per attaccare i media vicini al Partito Democratico e alla fazione “neo-con” dell’apparato di potere USA. La rete americana NPR ha scritto lunedì che la Casa Bianca starebbe già valutando possibili candidati per sostituire Hegseth, anche se la notizia è stata seccamente smentita dall’amministrazione repubblicana. Riguardo invece alla chat sullo Yemen, Trump insiste che non sarebbero state condivise informazioni classificate circa le operazioni belliche.

Ci sono ad ogni modo pochi dubbi che Pete Hegseth, arrivato al grado di maggiore della Guardia Nazionale prima di approdare a Fox News, sia in larga misura inadeguato a dirigere un colosso militare e burocratico con oltre due milioni di dipendenti e un budget annuale da circa 850 miliardi di dollari. Trump lo aveva d’altra parte scelto per la sua fedeltà alla causa “MAGA” e, nonostante l’opposizione anche di molti nel Partito Repubblicano, si era adoperato per garantirgli la ratifica del suo incarico al Senato. Durante le udienze, erano riemerse oltretutto accuse ed episodi poco edificanti del suo passato, tra cui storie di abusi coniugali e molestie sessuali. Nel voto decisivo in aula, tre senatori repubblicani avevano votato assieme ai democratici contro la nomina di Hegseth e solo il voto del vice-presidente Vance, che è anche presidente del Senato americano, aveva reso possibile un esito positivo per la Casa Bianca.

Sarà ora da verificare la disponibilità di Trump a continuare ad appoggiare il suo segretario alla Difesa nel caso le polemiche dovessero aumentare o se emergessero ulteriori “scandali”. Come quasi sempre accade in controversie di questo genere, gli attacchi contro un esponente politico di rilievo possono tuttavia nascondere manovre con fini non proprio edificanti. Dagli ambienti trumpiani si ipotizza ad esempio un collegamento tra un’altra recente esclusiva del New York Times e l’offensiva in corso contro Hegseth.

Secondo il più importante giornale “liberal” americano, Trump aveva respinto una proposta israeliana di bombardare i siti nucleari iraniani, optando almeno temporaneamente per la strada diplomatica. A convincere il presidente a non assecondare Netanyahu sarebbero stati alcuni membri del gabinetto, tra cui appunto Hegseth. Questa sarebbe quindi una delle possibili ragioni alla base della campagna mediatica scatenata nel fine settimana contro il capo del Pentagono, responsabile, agli occhi dei “falchi” sulla stampa e dentro il governo, di avere impedito la realizzazione di uno degli obiettivi che essi perseguono da tempo, ovvero un attacco militare contro la Repubblica Islamica.

È ancora più probabile che l’offensiva politica in corso, che punta alle dimissioni o alla rimozione forzata del segretario alla Difesa, sia da ricondurre a preoccupazioni crescenti di natura più generale. La gestione della macchina da guerra americana è stata in questa prima fase del secondo mandato di Trump a dir poco confusa, con iniziative che hanno generato divisioni e malumori diffusi. Vale a dire una situazione tutt’altro che ideale per un dipartimento che sta assumendo un ruolo ancora più importante nell’ottica delle sfide che la classe dirigente americana ritiene di dovere combattere.

La rivalità in primo luogo con la Cina sembra cioè destinata sempre più ad assumere un carattere militare nel prossimo futuro e l’ultima cosa che possono permettersi le forze armate degli Stati Uniti, già superate in parecchi ambiti dalle altre potenze globali, è appunto una gestione caotica e “divisiva” che, almeno potenzialmente, metta a rischio le capacità di risposta e intervento del Pentagono. Nonostante Hegseth abbia ad esempio assicurato che il suo dipartimento arriverà presto ad avere un bilancio che sforerà per la prima volta i mille miliardi di dollari, in pochi tra gli ambienti del “Deep State” sembrano quindi nutrire fiducia nelle sue capacità e preferirebbero perciò una sua uscita di scena, anche per riallineare quanto prima gli obiettivi di Trump con quelli più “tradizionali” della politica estera americana.

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