Il primo round di colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti in Oman nel fine settimana si è chiuso con dichiarazioni moderatamente ottimistiche da parte di entrambe le delegazioni, alimentando una cauta sensazione di fiducia per la possibile de-escalation di una crisi che, solo fino a pochi giorni fa, sembrava destinata a esplodere in uno scontro militare. Quello che è stato ottenuto sabato è però solo il risultato minimo tra quelli da considerare positivi. Gli ostacoli sulla strada di un accordo che faccia rientrare il (finto) problema del nucleare iraniano sono molti e di difficile scioglimento, primi fra tutti la reale attitudine del presidente Trump e l’influenza che avranno sulle decisioni della Casa Bianca gli ambienti “neo-con” e quelli sionisti, che spingono da anni per una guerra contro la Repubblica Islamica.

Non essendo trapelato virtualmente nulla circa il contenuto delle discussioni, durate circa due ore e mezza, gli unici elementi positivi emersi sono stati la decisione di entrambe le parti di fissare la data di un secondo incontro, che si terrà sabato prossimo forse a Roma, e i brevi scambi di saluti o comunque di qualche battuta in maniera “diretta” da parte delle due delegazioni prima e dopo i colloqui, tenuti invece nel formato “indiretto”. Ovvero con diplomatici omaniti che hanno fatto la spola tra le due stanze separate in cui erano ospitati i rappresentanti di Iran e USA.

Le dichiarazioni rilasciate dal ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, hanno fornito comunque qualche indicazione in più sugli argomenti toccati. Il capo della delegazione di Teheran ha spiegato ad esempio che è stato concordato di discutere nel prossimo incontro i lineamenti generali di un ipotetico accordo, così da verificare “fino a dove potrà arrivare questo processo”. Nel concreto, si tratta di una fase preliminare per gettare le basi da cui partire per impostare i negoziati veri e propri. Per il resto, Araghchi, ma anche il capo negoziatore americano, Steven Witkoff, ha sottolineato il clima “rispettoso” che ha prevalso e l’impegno a trovare un punto d’incontro.

Dettagli più precisi sui colloqui sono apparsi su vari media, anche se però non confermati dai governi dei due paesi. Il sito Amwaj Media ha citato fonti iraniane per rivelare che Witkoff avrebbe presentato ai suoi interlocutori una bozza di accordo che non include la richiesta di smantellare totalmente il programma nucleare della Repubblica Islamica, cioè quello civile, che è anche l’unico attivo in questo paese. Se confermata, questa notizia rappresenterebbe un passo avanti importante nel processo diplomatico e un cambiamento di rotta significativo da parte dell’amministrazione Trump. Nei giorni scorsi erano infatti arrivate dichiarazioni minacciose da Washington proprio sulla necessità da parte iraniana di liquidare tutte le attività legate al nucleare.

È improbabile tuttavia che la delegazione americana si sia spinta già così avanti nel primo incontro con i rappresentanti iraniani. Prima del vertice in Oman, Witkoff aveva ribadito in un’intervista al Wall Street Journal che “oggi la nostra posizione” prevede la richiesta che l’Iran smantelli completamente il suo programma nucleare. L’inviato di Trump aveva però aggiunto che questa condizione “non significa… che non potremo trovare altre strade per un compromesso tra i nostri due paesi”. Quello che Washington non può in nessun modo accettare è invece che l’Iran arrivi alla costruzione di armi nucleari.

Il mantenimento del proprio programma civile è un requisito essenziale per la Repubblica Islamica, il cui governo aveva affermato in modo chiaro che anche altre due questioni cruciali, su cui la Casa Bianca era stata quanto meno ambigua, non sarebbero dovute entrare nei colloqui in Oman. Si tratta della sorte della dotazione di missili balistici, determinanti per la difesa e la sicurezza del paese, e dei rapporti con i propri alleati in Medio Oriente, da Hezbollah a Hamas, dalle milizie sciite irachene ad Ansarallah in Yemen.

Nucleare civile, missili e Asse della Resistenza sono in definitiva argomenti che, se sollevati dagli Stati Uniti nei colloqui, rischiano di far cadere precocemente le trattative. Visto che simili argomenti sono agitati da tempo dai falchi anti-iraniani negli USA e in Israele, è del tutto possibile che questi ultimi finiscano per introdurli nel negoziato, al preciso scopo di far saltare il tavolo diplomatico. Il governo iraniano, da parte sua, chiede che ci si concentri esclusivamente sul controllo del suo programma nucleare civile, come elemento di scambio per ottenere l’allentamento delle sanzioni economiche imposte da Washington.

Per Teheran c’è insomma in discussione il ritorno allo status definito dall’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA). Quell’accordo stabiliva appunto una serie di vincoli e controlli alle attività nucleari civili iraniane, con appunto l’obiettivo ufficiale di impedire che esse fossero dirottate a scopi militari. Fu tuttavia Trump nel 2018 a fare uscire unilateralmente e senza motivi validi gli Stati Uniti dal JCPOA, così che resta da vedere quanto l’amministrazione repubblicana e gli ambienti anti-iraniani saranno disposti ad accettare un mero ritorno ai termini di un accordo che essi stessi avevano denunciato e affondato.

Ci sono per questa e altre ragioni svariati osservatori che giudicano estremamente improbabile il raggiungimento di un accordo tra USA e Iran. Yves Smith dell’autorevole blog Naked Capitalism ritiene che, anche nel caso Trump non stia usando la diplomazia per presentare richieste inaccettabili a Teheran allo scopo di ottenere un rifiuto e giustificare un’aggressione militare, le probabilità che il processo appena iniziato abbia successo sono minime. L’articolo elenca alcuni fattori che rendono un accordo poco più di un miraggio.

Uno è la possibile richiesta americana di fermare gli attacchi missilistici di Ansarallah (“Houthis”) dallo Yemen verso il Mar Rosso e il territorio israeliano. Trump è impegnato in una guerra contro il paese della penisola arabica che rischia di impantanare gli Stati Uniti esattamente come era accaduto all’amministrazione Biden. Perciò, un accordo con l’Iran che convinca Ansarallah a fermare le operazioni militari in solidarietà con i palestinesi di Gaza rappresenterebbe un successo per la Casa Bianca, oltre che un regalo al regime genocida di Netanyahu. Il problema è che i legami tra Iran e Ansarallah sono sovrastimati dall’Occidente e, anche avendone le intenzioni, è difficile che Teheran abbia i mezzi per convincere i leader di fatto dello Yemen nord-occidentale a fermare le operazioni contro lo stato ebraico.

Nello stesso articolo di Naked Capitalism si ipotizza anche che Trump e i suoi uomini riconducibili alla galassia “neo-con” credano probabilmente nella tesi della debolezza militare dell’Iran, le cui difese sarebbero state decimate dall’attacco militare israeliano di fine ottobre 2024, in risposta a quello condotto dall’Iran a inizio di quello stesso mese. Questa convinzione non tiene conto delle possibilità offensive iraniane, quasi certamente e in larga misura ancora intatte, che, in caso di un attacco di USA o Israele, potrebbero causare danni enormi in Medio Oriente, con effetti devastanti sull’economia globale. Perciò, Trump intenderebbe spingere le sue richieste in fase di negoziato con Teheran fino all’estremo, ritenendo di avere in mano carte vincenti sul piano militare.

Un altro fattore che gioca contro un accordo è naturalmente Israele e l’influenza sionista smisurata sulla politica americana e la stessa amministrazione Trump. A ricordarlo nei giorni scorsi è stata una rivelazione del sito investigativo The Grayzone, che ha pubblicato il contenuto di una registrazione effettuata durante una riunione della principale lobby sionista negli USA: AIPAC. Il suo presidente spiegava che AIPAC ha accesso privilegiato alle discussioni che avvengono alla Casa Bianca e ha un ampio ascendente sull’elaborazione della politica estera, grazie ai legami strettissimi con personalità di primissimo piano dell’amministrazione Trump, come il segretario di Stato, Marco Rubio, il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Mike Waltz, e il direttore della CIA, John Ratcliffe.

Su tutta la vicenda del nucleare iraniano pesa anche e soprattutto la questione della possibile reintroduzione delle sanzioni internazionali contro l’Iran che il JCPOA aveva sospeso. Il meccanismo allora concordato a Vienna prevedeva un eventuale “snapback” nel caso Teheran fosse in violazione dei termini dell’accordo sul nucleare e almeno uno dei firmatari di esso, ad esclusione degli Stati Uniti che dal JCPOA sono usciti, denunciasse questo stato di fatto al Consiglio di Sicurezza ONU. I termini per invocare questo dispositivo scadono il 18 ottobre ed è molto probabile che Trump lo userà come elemento di pressione per ottenere concessioni dalla Repubblica Islamica.

I tempi sono piuttosto stretti e la fretta, evidenziata soprattutto da Trump per presentare agli americani un qualche successo diplomatico, potrebbe giocare a sfavore di un processo che si annuncia invece molto complesso. Gran parte delle trattative, se dovessero avanzare, sarà infatti dedicata alla definizione dei termini di controllo delle attività nucleari iraniane. In teoria, il JCPOA offre un modello già pronto a questo scopo, ma il programma nucleare iraniano è avanzato notevolmente a partire dall’uscita di Trump dall’accordo e questa realtà potrebbe rendere ancora più laborioso il processo e rafforzare le posizioni di coloro che puntano a far naufragare i negoziati.

Le prospettive non appaiono quindi incoraggianti, fondamentalmente perché alla base della “crisi” iraniana ci sono questioni legate agli interessi strategici e alla supremazia di USA e Israele in Medio Oriente, minacciati da Teheran e dalla Resistenza. La dimensione militare del programma nucleare iraniano è puramente un pretesto e a essere consapevoli che questa minaccia, allo stato attuale delle cose, è inesistente sono gli stessi ambienti che negli Stati Uniti spingono per l’opzione militare. Infatti, da quasi due decenni gli stessi rapporti ufficiali dell’intelligence americana riconoscono che la Repubblica Islamica non sta lavorando a un’arma nucleare né la sua leadership intende muoversi in questa direzione.

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