La nuova realtà siriana dopo la caduta del governo di Assad e la presa del potere del regime qaedista appoggiato dalla Turchia ha innescato dinamiche che stanno provocando pericolose tensioni tra Ankara e Tel Aviv. Erdogan e Netanyahu cercano di estendere la propria influenza quanto più possibile nel paese lacerato da oltre un decennio di conflitti, fino a rischiare uno scontro armato diretto, come è accaduto ad esempio con il recente bombardamento israeliano della base di Tiyas (“T4”) in Siria, dove la Turchia intende stabilire una postazione militare permanente. Entrambi i paesi, tuttavia, puntano a mantenere una Siria debole e divisa, così che un qualche accordo quanto meno provvisorio che garantisca i rispettivi interessi sembra essere possibile, soprattutto nel quadro delle manovre di Washington per allineare i due alleati alle mire americane contro l’Iran e i suoi partner regionali.

Mercoledì, il quotidiano israeliano Jerusalem Post ha scritto che Ankara e Tel Aviv stanno discutendo per “creare un meccanismo di coordinamento” che permetta di evitare l’escalation delle tensioni in Siria. Il modello sarebbe quello che, negli anni della guerra in questo paese, Russia e Israele avevano implementato per condurre le rispettive operazioni senza “frizioni non necessarie”. I colloqui sarebbero già in corso in Azerbaigian, il cui governo intrattiene ottimi rapporti con entrambe le parti.

Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha a sua volta affermato sempre nella giornata di mercoledì che il governo di Ankara non ha intenzione di essere coinvolto in un conflitto in Siria, anche se il suo paese non resterà a guardare in caso di instabilità e conseguenti minacce alla sicurezza nazionale. L’abbassamento dei toni tra Israele e Turchia è da collegare anche alla recente visita di Netanyahu a Washington, dove il premier/criminale di guerra ha quasi certamente discusso con Trump della situazione in Siria e del comportamento di Erdogan. Nelle dichiarazioni pubbliche del presidente USA c’è stato infatti un riferimento alle sue capacità di risolvere qualsiasi problema dovesse emergere nei rapporti con la Turchia.

Il già citato bombardamento della base militare in Siria su cui Erdogan ha messo gli occhi è stato descritto dalla stampa israeliana come un “chiaro messaggio” recapitato al presidente turco. Ankara valutava la possibilità di installare qui un sistema di difesa anti-aereo, mentre in precedenza Erdogan e il leader di fatto del regime al potere a Damasco, Abu Mohammad al-Joulani (Ahmad al-Sharaa), avevano discusso della possibilità di concedere accesso ai militari turchi ad altre basi in territorio siriano. Queste dinamiche minacciano una futura ingombrante presenza della Turchia in Siria per Israele, da dove, subito dopo la rimozione di Assad lo scorso dicembre, ci si è mossi per cancellare le potenzialità belliche di questo paese.

Poco dopo il raid contro la base “T4”, il ministro degli Esteri israeliano Saar aveva così accusato la Turchia di volere istituire un “protettorato” sulla Siria. Il titolare della Difesa Katz, invece, aveva avvertito il presidente di fatto della Siria che il suo regime avrebbe “pagato un prezzo molto alto” se avesse consentito a forze ostili di entrare nel paese e mettere in pericolo la sicurezza dello stato ebraico.

Erdogan intende evidentemente capitalizzare gli investimenti fatti in questi anni sulle forze radicali (terroriste) che hanno alla fine rovesciato il governo di Assad. Le mire “neo-ottomane” di Ankara sulla Siria sono ben note e si intrecciano a interessi di natura strategica ed energetica, ma, come molti osservatori avevano fatto precocemente notare, contrastano con gli obiettivi israeliani. Allo stesso tempo, nonostante negli ultimi mesi, in seguito al genocidio palestinese a Gaza, la retorica anti-israeliana di Erdogan sia salita di vari toni, nel concreto quest’ultimo non ha fatto nulla per ostacolare il regime di Netanyahu, ma ha anzi garantito che il flusso di merci e greggio dalla Turchia a Israele non fosse interrotto.

Lo stesso nuovo regime di Damasco, tenuto in piedi grazie alla Turchia, non ha mosso un dito né alzato la voce contro l’avanzata e le operazioni militari di Israele in Siria. Le forze sioniste, come già accennato, hanno potuto così decimare installazioni e armamenti siriani. Anche via terra, Tel Aviv ha avuto facoltà di penetrare in profondità con vari pretesti, dalla necessità di garantire la sicurezza israeliana alla difesa della minoranza drusa siriana, tanto che oggi le forze di occupazione si trovano praticamente alle porte di Damasco.

Il “messaggio” inviato da Israele a Erdogan e il probabile intervento dell’amministrazione Trump hanno fatto così in modo che il presidente turco accettasse un aggiustamento dei propri piani in Siria. Un’analisi pubblicata mercoledì dal sito libanese The Cradle ha spiegato che il progetto turco di “creare un nuovo esercito siriano si scontra con il desiderio israeliano di mantenere la Siria debole militarmente”. In questa prospettiva, il bombardamento contro la base “T4” è stato il modo in cui “Tel Aviv ha tracciato una linea rossa”, ovvero ha intimato a Ankara di desistere. E la Turchia, scrive The Cradle, “per il momento sembra avere accettato i termini” imposti da Israele.

È chiaro che Erdogan ha poco appetito per uno scontro militare con Israele, anche perché il suo paese è in una situazione economica poco incoraggiante. Inoltre, i problemi politici per il presidente sul fronte interno non accennano a diminuire e, retorica a parte, quest’ultimo non ha nessuna intenzione di inimicarsi l’Occidente. Quello che sembra delinearsi, secondo l’articolo di The Cradle, è così una qualche intesa per la divisione della Siria in zone di influenza. In quest’ottica, ha senso anche l’accordo raggiunto a marzo tra Damasco e la leadership curda nel nord-est della Siria, appoggiato dallo stesso governo di Ankara.

La Turchia estenderebbe la sua influenza nel nord di questo paese, i curdi si assicurerebbero autonomia d’azione nelle aree che già controllano da anni e Israele farebbe di fatto suo il sud. Il regime qaedista di Joulani resterebbe invece con il controllo di fatto della regione centro-occidentale tra Idlib e Damasco. Questa frammentazione è la logica conseguenza delle manovre che dal 2011 sono in moto per distruggere la Siria come paese sovrano ed elemento centrale delle operazioni dell’Asse della Resistenza. Essa garantisce la debolezza del nuovo soggetto uscito dalla caduta di Assad e l’influenza di vari attori con interessi differenti ma convergenti e tutti riconducibili, oltre che al fronte anti-iraniano, “all’orbita strategica” degli Stati Uniti.

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