La ripresa dei bombardamenti indiscriminati su Gaza nelle prime ore di martedì da parte di Israele è la logica conseguenza degli sforzi delle ultime settimane per affondare la tregua con Hamas firmata lo scorso mese di gennaio. Le bombe contro obiettivi civili, che hanno massacrato centinaia di donne e bambini, si sono accompagnate alla solita ondata di propaganda israeliana e americana. La nuova aggressione sionista avviene in un contesto segnato dall’emergere di pericolosissime tensioni tra gli Stati Uniti da una parte e l’Iran e il movimento Ansarallah che controlla parte dello Yemen dall’altra, rendendo ancora più esplosiva la situazione in Medio Oriente.

La responsabilità maggiore dei fatti di queste ore è dell’amministrazione Trump. Il neo-presidente repubblicano ha chiarito in poche settimane quale sia il livello di credibilità della sua immagine di “uomo di pace” in grado di rimediare alle politiche guerrafondaie del suo predecessore. A gennaio, la mediazione dell’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, secondo le ricostruzioni ufficiali era stata decisiva nello spingere Netanyahu ad accettare le condizioni del cessate il fuoco. Quasi subito, però, Trump e il suo staff avevano espresso previsioni pessimistiche sulla tenuta della tregua ed essi stessi avevano assecondato Israele nelle manovre per sabotare il processo diplomatico.

I due alleati hanno così a poco a poco aggiunto condizioni che Hamas avrebbe dovuto accettare, non per procedere con la seconda fase prevista della tregua, ma per ottenere un prolungamento temporaneo della prima. Il tutto mentre il regime sionista violava impunemente i termini del cessate il fuoco nel silenzio della comunità internazionale. Netanyahu, di comune accordo con Trump, ha alla fine deciso la ripresa dei bombardamenti sulla striscia, accusando Hamas di avere rifiutato la liberazione immediata di tutti i prigionieri ancora nelle mani del movimento palestinese e la consegna delle armi, nonché la rinuncia a svolgere un qualsiasi ruolo politico a Gaza. Tutte condizioni, cioè, non previste dal documento firmato da Netanyahu con la mediazione dell’amministrazione americana.

Israele e Stati Uniti hanno quindi cambiato le carte in tavola per ottenere con la “diplomazia” quello che era stato impossibile raggiungere con le armi. Hamas – e la popolazione palestinese – si ritrova così nuovamente sotto attacco nonostante abbia sempre rispettato i termini della tregua e insistito per la sua implementazione integrale. Solo nelle poche ore della prima offensiva post-tregua di Israele sono stati uccisi oltre 400 palestinesi. Le bombe sono cadute su abitazioni, scuole, centri di soccorso, ospedali e moschee. Una furia cieca a cui tutto il mondo aveva già assistito praticamente ogni giorno dal 7 ottobre 2023 fino allo scorso 19 gennaio.

La ripresa delle operazioni militari su vasta scala era stata preparata dallo stop all’ingresso di tutti gli aiuti umanitari nella striscia a inizio marzo, con la ben consolidata strategia genocida per distruggere fisicamente la popolazione civile e “ripulire” il territorio di Gaza. Hamas, da parte sua, ha emesso un comunicato molto duro nei confronti del regime di Netanyahu, lanciando un appello ai paesi arabi e alle Nazioni Unite che, tuttavia, cadrà prevedibilmente nel vuoto.

I leader del movimento di liberazione palestinese hanno avvertito che la decisione del premier israeliano sacrificherà di fatto i prigionieri ancora detenuti a Gaza. Le minime concessioni fatte finora da Netanyahu erano in effetti collegate in parte alle pressioni dell’opinione pubblica israeliana e dei parenti degli “ostaggi” per arrivare alla loro liberazione, ma la sorte di questi ultimi non è mai stata al centro dell’interesse del suo regime di ultra-destra. Anzi, è molto probabile che Netanyahu preferisca che i prigionieri israeliani sotto custodia di Hamas vengano eliminati fino all’ultimo, auspicabilmente sotto i bombardamenti delle forze di occupazione, in modo da avere le mani libere per intensificare l’offensiva militare nella striscia.

La logica del genocidio dopo quasi un anno e mezzo di guerra si intreccia ormai inevitabilmente con la crisi irrisolvibile in cui si dibatte un Netanyahu stretto tra guai legali, pressioni politiche e divisioni sociali crescenti. Non è un caso ad esempio che il premier-criminale di guerra fosse atteso per testimoniare in tribunale questa settimana nel quadro del processo che lo vede alla sbarra per corruzione. L’accusa ha accettato la richiesta dei legali di Netanyahu di cancellare la sua testimonianza proprio in seguito alla rinnovata aggressione militare a Gaza.

Netanyahu è anche nel pieno di una disputa con i vertici del servizio segreto domestico (Shin Bet), che lo mette ancora di più in una posizione di precarietà. Il premier intende licenziare il suo direttore, Ronen Bar, nel quadro della guerra ai suoi oppositori interni, esplosa su più fronti attorno alle questioni della guerra, delle cause degli eventi del 7 ottobre 2023, della liberazione dei detenuti di Hamas e, in generale, della direzione da dare al progetto sionista.

Guerra e genocidio sono dunque i fattori che tengono in vita politicamente Netanyahu, legato a doppio filo all’ultra-destra e ai deliranti progetti della “Grande Israele”. Una condotta coordinata con l’amministrazione Trump, che, sotto l’influenza della lobby sionista, ha rapidamente rinnegato le sue stesse politiche, prima con l’assurdo progetto della “Riviera del Mediterraneo” a Gaza e ora con il sostegno alla seconda fase del genocidio, nonché con l’attacco allo Yemen e le minacce di guerra contro l’Iran.

Nella più ottimistica delle ipotesi, la Casa Bianca potrebbe puntare sul ritorno alla violenza da parte di Israele per convincere Hamas a cedere e acconsentire alle richieste presentate al tavolo del negoziato da Tel Aviv. Si tratta però dell’ennesima speranza illusoria, che, una volta crollata, richiederà come minimo un massiccio dispiegamento di truppe di terra, in un frangente di estrema difficoltà nell’utilizzo dei riservisti dell’esercito di occupazione, con il conseguente aumento del numero dei caduti israeliani nelle strade e tra le macerie di Gaza.

L’altro aspetto inquietante è la contemporanea offensiva che sembra in fase di preparazione da parte di Trump contro la Repubblica Islamica, preparata dagli attacchi sullo Yemen dei giorni scorsi. Si registrano a questo proposito e in queste ore movimenti di navi da guerra americane verso il Medio Oriente, segnale appunto di una possibile imminente operazione contro obiettivi iraniani. Se così fosse, è plausibile che a giocare un ruolo decisivo nel fomentare un’azione così folle sia stato ancora una volta il regime di Netanyahu.

Non ci sono virtualmente possibilità di successo da parte di Washington e Tel Aviv in caso di attacco contro Teheran. Al di là dell’efficacia di un eventuale attacco, l’Iran, come ha già dimostrato nei mesi scorsi, risponderà duramente con un ventaglio di opzioni che potrebbero implicare, tra l’altro, l’affondamento di navi da guerra americane, la distruzione di obiettivi strategici in Israele, il blocco del Golfo Persico o la messa fuori uso delle installazioni petrolifere dei regimi arabi.

In ultima analisi, la responsabilità del genocidio ripreso martedì è condivisa anche dagli stessi paesi arabi, interessati più a sfruttare l’occasione della guerra per liquidare Hamas, condividendo quindi gli obiettivi di Israele, che a difendere la popolazione palestinese. Né è una prova la risposta, promossa dall’Egitto, al già ricordato “piano Riviera” per Gaza di Trump. Discusso in una recente riunione della Lega Araba al Cairo, il progetto è stato ufficialmente appoggiato da tutti i paesi membri, ma dietro le quinte sono prevalse le divisioni dovute alla competizione per assicurarsi una certa influenza sul futuro della striscia e salvaguardare investimenti e interessi economici.

Testimonianza tra le più limpide delle misere condizioni morali e politiche dei leader dei regimi arabi è la rivelazione pubblicata lunedì dalla testata on-line Middle East Eye sugli intrighi degli Emirati Arabi attorno al piano egiziano per Gaza. Malgrado Abu Dhabi abbia dato il proprio sostegno all’iniziativa per la ricostruzione della striscia senza l’espulsione dei suoi abitanti, in segreto la casa regnante ha fatto pressioni sull’amministrazione Trump e il Congresso di Washington per convincere l’Egitto a mettere da parte il piano e accettare l’allontanamento forzato dei palestinesi da Gaza.

La notizia è l’ennesima dimostrazione del disinteresse dei regimi arabi per la causa palestinese, essendo essi più orientati a normalizzare i rapporti con il regime criminale sionista e a fare affari con quest’ultimo e con gli Stati Uniti che a mobilitarsi per fermare il genocidio, in totale contrasto oltretutto con le posizioni filo-palestinesi della stragrande maggioranza delle rispettive popolazioni.

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