Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha rivelato martedì che il governo russo si è proposto di mediare un eventuale negoziato diplomatico tra gli Stati Uniti e l’Iran per raggiungere un accordo sull’annosa questione del nucleare di Teheran. L’offerta sarebbe stata discussa a margine del vertice tra gli inviati di Trump e Putin a Riyadh lo scorso mese di febbraio, dopo che i due presidenti avevano toccato l’argomento nella telefonata che aveva preceduto l’evento. L’interesse della nuova amministrazione repubblicana per una possibile intesa con la Repubblica Islamica non è una sorpresa, ma lo stesso Trump continua a tenere un atteggiamento a dir poco ambiguo sull’argomento, mentre dal lato pratico sembra assecondare le solite fallimentari politiche della “massima pressione” promosse dai falchi “neo-con” e dal regime sionista di Netanyahu.

Peskov ha spiegato che Mosca ritiene che i due nemici dovrebbero “risolvere tutti i loro problemi attraverso il negoziato” e il Cremlino è pronto “a fare tutto quanto in suo potere per raggiungere questo obiettivo”. Anche il consigliere di Putin per la politica estera, Yury Ushakov, è intervenuto sulla questione parlando alla stampa. Quest’ultimo ha ammesso che le delegazioni americana e russa hanno discusso dei rapporti con l’Iran in Arabia Saudita, dove si sono accordati per organizzare colloqui dedicati. Al momento non è stata tuttavia fissata una data precisa.

Non è chiaro da quale delle due parti sia partita l’iniziativa, oppure se i vertici della Repubblica Islamica abbiano sollecitato gli alleati russi a fare da tramite con gli Stati Uniti per aprire uno spiraglio diplomatico. Di certo, Mosca auspica una qualche normalizzazione dei rapporti tra Washington e Teheran, alla luce del consolidamento della partnership strategica con il paese mediorientale che spazia dall’ambito energetico a quello militare fino a quello, sempre più importante, delle rotte commerciali.

Gli ostacoli al dialogo restano in ogni caso significativi. Una delle prime azioni intraprese da Trump dopo il ritorno alla Casa Bianca è stata la firma di un “memorandum presidenziale” che reintroduce le misure punitive conto l’Iran, con l’intenzione, tra le altre, di ridurre a zero l’export petrolifero di questo paese. Tutto quello che Trump aveva invece concesso, oltre a qualche dichiarazione estemporanea sulla volontà di mandare in porto un accordo sul nucleare, è l’esclusione dalla nuova amministrazione di alcuni dei più convinti falchi anti-iraniani, come l’ex segretario di Stato Mike Pompeo e l’ex inviato speciale per l’Iran, Brian Hook. Trump, inoltre, al momento della firma del decreto appena ricordato si era detto “scontento” dell’iniziativa, augurandosi di dovere usare il meno possibile lo strumento delle sanzioni.

Non sorprende quindi che le posizioni a Teheran si siano irrigidite nelle ultime settimane. È del tutto possibile che Trump voglia utilizzare come suo solito le minacce per piegare la resistenza dell’interlocutore da cui punta a ottenere concessioni e un accordo. La strategia delle pressioni e delle sanzioni è però inefficace nei confronti dell’Iran, come ha ampiamente dimostrato la storia degli ultimi decenni. Infatti, i leader iraniani insistono nel respingere qualsiasi invito al dialogo “sotto pressione” e anche gli ambienti riformisti più disponibili all’apertura verso gli USA ostentano una crescente freddezza per il negoziato.

Il presidente Pezeshkian ha ad esempio spiegato in un intervento dello scorso fine settimana in parlamento che il suo governo, anche se teoricamente favorevole al dialogo, intende conformarsi alle nuove posizioni più scettiche evidenziate di recente dalla Guida Suprema della rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei. Nei giorni scorsi, a rimarcare questa svolta, sono arrivate anche le dimissioni del vice-presidente per gli Affari Strategici, Javad Zarif, già ministro degli Esteri e considerato, tra i politici iraniani di spicco, uno di quelli maggiormente disposti a negoziare con l’Occidente.

La fermezza iraniana è alimentata anche dalle voci insistenti circa una possibile azione militare da parte di Israele. Netanyahu sta probabilmente sondando il terreno per un attacco contro le installazioni nucleari della Repubblica Islamica, contando sull’appoggio dell’amministrazione Trump o, quanto meno, sul tacito assenso di quest’ultima.

L’accademico di origine iraniana, Trita Parsi, ha spiegato in un’analisi pubblicata dal sito The American Conservative che la questione del nucleare iraniano sta rapidamente scendendo nella lista delle priorità dell’amministrazione Trump. Questo relativo disinteresse del presidente determina la gestione del “file” iraniano da parte dei membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, dove la presenza di “falchi” è piuttosto nutrita. Il già citato “memorandum presidenziale” firmato da Trump riflette infatti queste posizioni.

Le difficoltà ad aprire un qualche processo diplomatico dipendono in sostanza dalla cattiva fede degli Stati Uniti. Sempre Parsi elenca i due problemi principali che influenzano le decisioni dell’Iran. A Teheran si teme in primo luogo un sabotaggio di un futuro accordo con la Casa Bianca o anche dei soli sforzi diplomatici, come era accaduto, durante il primo mandato di Trump, tra il 2018 e il 2020 con l’uscita unilaterale degli USA dal JCPOA e la reimposizione delle sanzioni punitive.

L’altro fattore decisivo e spesso trascurato da media e commentatori ufficiali è l’intenzione americana di allargare la potenziale trattativa con l’Iran a questioni off-limits per la leadership di questo paese. Una di esse è il tentativo di limitare lo sviluppo del programma missilistico iraniano. Un obiettivo che ha a che fare con la “sicurezza” di Israele e delle basi militari americane in Medio Oriente. Teheran comprende perfettamente la trappola, anche perché la neutralizzazione di questa arma faciliterebbe un futuro attacco militare da parte di Israele e Stati Uniti.

L’altra questione in cima alla lista delle richieste di Washington è la rottura dell’asse della Resistenza, ovvero lo sganciamento dell’Iran dai suoi alleati nella regione. Questo fattore è al centro della crisi che infiamma il Medio Oriente dall’ottobre del 2023 e si intreccia alla stessa questione palestinese. Anche in questo caso, la Repubblica Islamica non ha dubbi che si tratti di una manovra volta al proprio isolamento e indebolimento, in ultima analisi per promuovere gli interessi e le posizioni egemoniche di Stati Uniti e Israele nella regione.

Nei prossimi mesi, in assenza di progressi, la finestra della diplomazia rischia quindi di chiudersi definitivamente. Uno degli scogli principali è il meccanismo di ripristino delle sanzioni internazionali che potrebbe scattare a ottobre, in base ai termini del JCPOA. Se cioè uno dei firmatari dell’accordo sul nucleare, ad esclusione degli USA che lo hanno lasciato unilateralmente, dovesse certificare che l’Iran è in violazione dello stesso, esso avrebbe facoltà di reintrodurre le sanzioni che erano state sospese con l’implementazione del JCPOA stesso.

Come sostiene ancora Trita Parsi, questa mossa spingerebbe molto probabilmente la leadership iraniana ad abbandonare il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, innescando una pericolosa escalation che rischierebbe di sfociare in una guerra aperta. Ci sono pochi dubbi che Israele lavori esattamente per un esito di questo genere, ma i calcoli di Netanyahu potrebbero essere clamorosamente sbagliati. Nonostante le debolezze e le difficoltà soprattutto economiche, l’Iran è tutt’altro che in ginocchio e sarebbe in grado, come aveva già evidenziato l’attacco missilistico contro il territorio israeliano lo scorso ottobre, di rispondere in maniera devastante.

Nella “migliore” delle ipotesi, insomma, l’opzione militare si potrebbe risolvere in un conflitto rovinoso per tutte le parti coinvolte. Resta da vedere se Trump voglia evitare questa deriva o se intenda seguire Israele e i falchi americani sulla strada della guerra.

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