I colloqui preliminari conclusi martedì a Riyadh tra le delegazioni di Stati Uniti e Russia non hanno prevedibilmente avvicinato una soluzione diplomatica alla crisi ucraina né resettato del tutto le relazioni tra le due potenze nucleari. Dopo un summit di oltre quattro ore dai toni cordiali, tuttavia, il risultato più importante è stato l’accordo sulla preparazione di un vero e proprio negoziato, basato sul riconoscimento degli interessi strategici di entrambe le parti. Il prossimo passo potrebbe essere ora l’atteso faccia a faccia tra Putin e Trump, ma le variabili sulla strada della pace in Ucraina restano moltissime, a cominciare dal comportamento dei vassalli europei, messi da parte dalla nuova amministrazione repubblicana, e dello stesso regime di Zelensky, il cui futuro appare cupo come non mai in questi ultimi tre anni.

Mentre Trump e i suoi uomini hanno definito chiaramente gli obiettivi in relazione alla guerra tra Russia e Ucraina, sia pure tralasciando o posticipando i dettagli cruciali, l’Europa resta ancorata a una realtà superata da tempo dagli eventi e continua a impegnarsi pubblicamente per un progetto irrealizzabile, sia esso la vittoria di Kiev o una “pace giusta” oppure, ancora, l’ottenimento di adeguate garanzie di sicurezza per il paese dell’ex Unione Sovietica.

Il panico scatenato dalle parole di Trump, del suo vice JD Vance alla conferenza sulla sicurezza di Monaco e del segretario alla Difesa, Pete Hegseth, sulle condizioni che Europa e Ucraina dovranno accettare, si è materializzato nel mini-vertice organizzato frettolosamente lunedì a Parigi dal presidente francese Macron. L’intenzione era di opporre un fronte comune, anche se composto solo da una selezione di paesi UE e dal Regno Unito, alle spinte centrifughe generate dal nuovo approccio della Casa Bianca alla vigilia dei colloqui nella capitale saudita.

Alla fine, le profonde preoccupazioni che sono emerse e le divisioni evidenziate dai colloqui non hanno fatto che peggiorare la situazione, tanto da mostrare chiaramente come non esistano né unità di intenti né strumenti concreti per delineare e perseguire un piano razionale alternativo sull’Ucraina o per opporsi a quello in fase di elaborazione a Washington. Il senso di sconfitta, la totale mancanza di leadership e l’incapacità organica di leggere la realtà e di difendere gli interessi del continente è riassunta nelle dichiarazioni dell’ultra-screditata presidente della Commissione Europea von der Leyen dopo il vertice di Parigi. La sua ricetta per la crisi consiste infatti nel garantire per l’Ucraina “la pace attraverso la forza” e, alla luce delle sfide che porrebbe il ritorno di Trump, un drastico aumento delle spese militari in Europa.

A Parigi, come già anticipato, si sono viste posizioni diverse, con paesi come Spagna e Polonia totalmente contrari al dispiegamento di militari in funzione di “peacekeeping” in Ucraina. Altri ancora, come la Germania, hanno ugualmente escluso questa ipotesi se non supportata dalla presenza anche di soldati americani. L’idea è invece appoggiata dal governo laburista di Londra e dallo stesso Macron, ma il punto sembra essere un altro. Questi paesi europei restano cioè fissati sulle posizioni fallimentari di questi tre anni che hanno condotto al disastro economico per il vecchio continente e alla rovina per l’Ucraina.

Nella migliore delle ipotesi, i governi dell’Europa non hanno ancora elaborato la nuova realtà e rimandano le scelte decisive per il futuro del continente e dei rapporti con gli Stati Uniti in attesa degli sviluppi del nascente negoziato tra Putin e Trump. In assenza di un cambio di rotta, verosimilmente indotto da pressioni dal basso o in seguito all’emergere di forze politiche alternative, i paesi europei restano quindi pericolosamente in bilico tra la ratifica definitiva del proprio suicidio economico e la scelta di auto-relegarsi alla totale irrilevanza strategica.

Un incubo, quello che l’Europa sta vivendo, che è peraltro il risultato delle proprie scelte, con la stragrande maggioranza dei governi volontariamente offertisi alla trappola ucraina preparata dagli Stati Uniti di Joe Biden. Tutti o quasi hanno manovrato per provocare la reazione russa, assecondando Washington e il regime filo-nazista di Kiev, prestandosi a un progetto che, nelle intenzioni, doveva distruggere o indebolire sensibilmente Mosca e il Cremlino. Al contrario, la Russia ne è uscita rafforzata e a finire in rovina è stata in primo luogo l’Europa che, ora, con un nuovo padrone alla Casa Bianca, si ritrova scaricata sia in relazione alla possibilità di influenzare la fine dei giochi in Ucraina sia per quel che riguarda il futuro dell’alleanza con Washington e della stessa NATO.

Per tutti gli anni della guerra in Ucraina, l’Europa, salvo rare eccezioni, su ordine dell’amministrazione Biden ha chiuso ogni spiraglio di dialogo con Mosca, respingendo la diplomazia per dedicarsi a provocazioni ed escalation militari. Un atteggiamento auto-lesionista che ha avuto effetti devastanti in vari ambiti e, inevitabilmente, ha finito a sua volta per chiudere qualsiasi possibilità di giocare un qualche ruolo nel negoziato annunciato precocemente da Trump e ora anche formalmente lanciato con il vertice di Riyadh.

L’ex ispettore ONU, Scott Ritter, in un’analisi pubblicata dal sito indipendente Consortiumnews ha spiegato che “l’Europa non è mai stata niente di più di uno strumento del potere degli Stati Uniti” e ora è arrivata una nuova amministrazione a Washington che “ha deciso che l’Europa non è più necessaria” a questo scopo. Dopo quanto accaduto alla conferenza di Monaco, prosegue Ritter, “l’Europa si sta affannando per trovare una risposta alla nuova realtà”. Affanno aumentato esponenzialmente in seguito alla telefonata di settimana scorsa tra Putin e Trump e i colloqui russo-americani di martedì in Arabia Saudita, dove si cerca una fine negoziata alla guerra in Ucraina e “un rilancio delle relazioni tra Mosca e Washington che implicherebbe la fine della NATO e della rilevanza dell’Europa”.

Le scelte che sembrano prospettare i governi europei risentono dunque del cambiamento di clima nelle relazioni transatlantiche, con il ritorno all’ordine del giorno, come era accaduto durante il primo mandato di Trump, dell’autonomia strategica del vecchio continente. Un’opzione, quella che si discute da Parigi a Berlino, che va però inevitabilmente ancora nella direzione sbagliata. Per la classe dirigente europea non si tratta cioè di utilizzare l’ostilità americana per abbracciare finalmente le opportunità del multipolarismo, bensì di insistere su politiche guerrafondaie, anti-sociali e, in ultima analisi, distruttive che, ancora una volta, non possono che portare il continente a ricoprire un ruolo del tutto marginale nei nuovi equilibri globali.

Questa predisposizione europea è evidente dai tentativi di rilancio sulla crisi ucraina che hanno visto, tra gli altri, Macron e la von der Leyen in questi giorni promettere un sostegno continuo dal punto di vista militare e finanziario al morente regime di Zelensky o minacciare un massiccio aumento delle spese militari per conquistare un’autonomia strategica e in materia di “sicurezza”, visto il venir meno delle garanzie degli Stati Uniti e dell’ombrello NATO nel prossimo futuro. Simili velleità non fanno però che smascherare una realtà fatta principalmente di impotenza, fin troppo palese, ad esempio, nell’improbabile impegno a inviare soldati in Ucraina per garantire un’eventuale accordo di pace. Un’ipotesi da tempo respinta da Mosca e comunque percorribile solo con un mandato ONU.

Ciò che resta all’Europa è piuttosto il tentativo di sabotare i negoziati di pace da cui è stata esclusa ed è questa una possibilità reale, soprattutto se si pensa alla miriade di nodi da sciogliere sulla strada della soluzione diplomatica. Il Cremlino ha chiarito da tempo che alcuni punti sono non negoziabili, a cominciare dall’impossibilità dell’Ucraina di entrare nella NATO e dalla rinuncia da parte di Kiev ai quattro “oblast” annessi dalla Russia dopo i referendum dell’autunno 2022.

Non solo, Mosca insiste nell’affrontare le origini della crisi in atto, ovvero l’architettura della sicurezza nel continente europeo nel quadro dei rapporti con gli Stati Uniti e del ruolo della NATO. È tutt’altro che chiaro quale sia la posizione dell’amministrazione Trump in questo ambito, ma le indicazioni emerse finora suggeriscono la possibilità di sacrificare un’Europa ridotta ancora di più a vassallo di Washington per perseguire l’obiettivo ultra-ambizioso di rompere il nodo multipolare formatosi in questi anni e che ha al centro la partnership russo-cinese.

Le recenti dichiarazioni di Trump sulla “morte” dei BRICS confermano questo argomento, oltretutto rafforzato dalla presa d’atto di non disporre dei mezzi per piegare o, peggio ancora, smembrare la Russia, come sembrano sognare invece tuttora gli ambienti più ferocemente russofobi in sede europea, tra cui i micro-stati baltici. Lo sganciamento di Mosca da Pechino sembra comunque un obiettivo difficilmente raggiungibile da Washington. In questo senso il treno ha con ogni probabilità già lasciato la stazione, ma, vista anche la natura pragmatica della leadership russa, restano aperte ampie chances di collaborazione e correzioni di rotta.

L’alternativa, d’altra parte, sarebbe la strada rovinosa dello scontro frontale, quella cioè che sembra continuare a volere percorrere un’Europa colpita allo stomaco da Trump e ancora ben lontana dal prendere atto della realtà, del proprio peso internazionale e delle opportunità a disposizione al di fuori della logica guerrafondaia e auto-distruttiva che, invece, pervade irrimediabilmente la sua classe dirigente.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy