Nonostante le minacciose dichiarazioni di Trump e Netanyahu dei giorni scorsi, la tregua nella striscia di Gaza sembra potere resistere, almeno per il momento, dopo che giovedì Hamas ha confermato che procederà con la liberazione concordata di altri tre prigionieri israeliani entro la giornata di sabato. La minaccia dello stop all’implementazione delle condizioni previste dal cessate il fuoco era legata alle ripetute violazioni da parte di Israele, ma anche al piano delirante del presidente americano per trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente” sotto il controllo USA. Se confermato, il momentaneo passo indietro di Washington e Tel Aviv, alla base della decisione di Hamas di sbloccare la liberazione dei prigionieri, è probabilmente dovuto proprio al disastroso impatto di quest’ultimo progetto criminale, che, tra l’altro, rischierebbe seriamente di destabilizzare vari paesi arabi alleati di Washington.

 

La delegazione di Hamas al Cairo ha trovato un accordo con i mediatori egiziani e del Qatar, evidenziando la volontà di non far saltare la tregua in presenza di un aumento, segnalato da varie fonti sul campo, della quantità di aiuti umanitari entrati nella striscia. Uno dei punti sollevati dal movimento di liberazione palestinese che governa Gaza era appunto il rallentamento da parte israeliana dei convogli con materiale da costruzione, cibo, farmaci e, soprattutto, alloggi provvisori. L’impressione è quindi che l’accordo sopravvivrà al fine settimana, anche se le forze di occupazione continuano a uccidere e ferire palestinesi nella striscia, in palese violazione del cessate il fuoco.

Lo stesso governo israeliano aveva mandato un messaggio a Hamas tramite Egitto e Qatar circa l’ammorbidimento delle proprie posizioni sugli “ostaggi”. Secondo quanto riportato mercoledì dalla testata on-line Axios, Tel Aviv ha fatto sapere che la tregua avrebbe tenuto se Hamas avesse deciso di procedere con la liberazione di tre detenuti, al contrario di quanto affermato in precedenza da Netanyahu e Trump che chiedevano invece la liberazione di tutti quelli ancora nelle mani del movimento di liberazione palestinese. Una condizione, quest’ultima, peraltro non contemplata dall’accordo.

In parallelo a questi nuovi sviluppi, ci sono quelli relativi al piano di Trump per Gaza. Nelle scorse ore, la Casa Bianca ha corretto il tiro sulla questione, aprendo ai piani alternativi per la striscia in fase di elaborazione tra i paesi arabi e, nello specifico, dall’Egitto. Il Cairo, sotto pressione come la Giordania dopo la “richiesta” di Trump di accogliere l’intera popolazione della striscia, aveva fatto sapere di voler presentare una soluzione diversa per garantire la ricostruzione senza l’evacuazione forzata dei residenti. Il 27 febbraio prossimo, il presidente al-Sisi ospiterà un vertice di emergenza della Lega Araba nel quale si dovrebbe appunto discutere del progetto per Gaza che eviti l’appropriazione del territorio da parte americana.

La portavoce dalla Casa Bianca, Karoline Leavitt, mercoledì ha affermato che sarebbe stato lo stesso presidente a chiedere ad alcuni paesi arabi di stilare un piano alternativo per Gaza, ma è al contrario probabile, come accennato all’inizio, che i contraccolpi del lancio dell’idea della “Riviera del Medio Oriente” abbiano suggerito almeno una parziale inversione di rotta. In particolare dopo la disastrosa conferenza stampa di martedì in occasione della visita a Washington del re della Giordania, Abdullah II.

L’evento era stato studiato da Trump per umiliare pubblicamente il sovrano hashemita, presentando alla stampa come fatto compiuto – e accettato dallo stesso Abdullah – la presa di possesso di Gaza da parte USA e la cacciata della sua popolazione, da trasferire forzatamente in Giordania e in Egitto. Abdullah, visibilmente in imbarazzo, era stato però il più evasivo possibile, per poi avvertire che un colloquio più franco sulla questione lo avrebbe avuto nel successivo faccia a faccia a porte chiuse con Trump.

Qui, Abdullah ha in effetti comunicato al presidente americano l’impossibilità di accettare il suo piano, pena la totale destabilizzazione del regno e il probabile rovesciamento della monarchia hashemita. Lo stesso sovrano, alcune ore dopo, ha inoltre scritto su X di essere contrario alla cacciata dei palestinesi da Gaza, lasciando alla Casa Bianca poche alternative al boicottaggio di un alleato cruciale in Medio Oriente.

Sulla stessa linea si è mosso, come già spiegato, anche l’Egitto. Il presidente al-Sisi ha da parte sua escluso formalmente una visita a Washington se Trump dovesse insistere con il “piano Riviera”. Ancora più preoccupante per il presidente americano è stato poi l’irrigidimento dell’Arabia Saudita. Il Financial Times ha scritto mercoledì che il ministro degli Esteri del regno, Faisal bin Farhan, ha posticipato una trasferta negli USA già programmata sempre per via dell’annuncio dell’iniziativa di Trump. Dal regno wahhabita si è anche registrata un’intensificazione della retorica anti-israeliana dopo un’intervista di Netanyahu nella quale il premier aveva sollevato l’ipotesi che l’Arabia avrebbe potuto ospitare permanentemente i palestinesi di Gaza, vista la disponibilità nel regno di “molta terra”.

È evidente che l’insistenza sul piano criminale di Trump per la striscia, anche senza considerare gli aspetti pratici, stava creando maggiori problemi rispetto ai molto ipotetici vantaggi. Ciò anche se si dovesse considerare, come aveva fatto qualche commentatore, che l’uscita di Trump era più che altro un espediente tattico per vincolare Netanyahu alla tregua, in vista della seconda fase dell’accordo con Hamas. La sola prospettiva di un’espulsione dei palestinesi e il controllo diretto degli Stati Uniti di Gaza doveva in altre parole convincere Netanyahu a non riprendere l’aggressione militare nella striscia.

La situazione generale resta in ogni caso esplosiva e le probabilità che il cessate il fuoco tenga o, ancora di più, che raggiunga la seconda o la terza fase previste sono piuttosto scarse. Netanyahu e i suoi alleati di ultra-destra restano sul piede di guerra e puntano al rilascio di tutti i prigionieri nelle mani di Hamas per poi ricominciare la barbarie scatenata all’indomani del 7 ottobre 2023. Se l’amministrazione Trump intende continuare ad assecondare le mire genocide di Israele, le prospettive di pace saranno perciò di fatto inesistenti. Per contro, il presidente repubblicano dovrà far fronte a un clima sempre più ostile nella regione, in primo luogo vedendo allontanarsi il miraggio della tanto perseguita “normalizzazione” tra i regimi arabi e lo stato ebraico.

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