La tregua a Gaza sembra essere ormai sull’orlo del collasso. Hamas ha annunciato la sospensione della liberazione dei prossimi ostaggi, un passo che compromette seriamente l'implementazione degli accordi di cessate il fuoco. Questa decisione è motivata dalle reiterate violazioni dell’accordo da parte di Israele, che continua a condurre operazioni militari e bloccare l’ingresso di forniture essenziali. Tra le infrazioni documentate, si segnalano l’uso quotidiano di droni da ricognizione, l’uccisione di decine di civili e ostacoli sistematici all’ingresso di materiali di soccorso, inclusi medicinali e attrezzature per la rimozione delle macerie. A peggiorare la situazione, Israele continua a ritardare il ritorno dei palestinesi sfollati nel nord della striscia, violando uno degli impegni centrali della tregua.

Questa escalation arriva dopo l’ennesima dimostrazione di arroganza politica da parte degli Stati Uniti. Durante un’intervista, Donald Trump ha ribadito il suo progetto di spopolare Gaza e trasformarla in una sorta di proprietà personale, descrivendola come "un’opportunità immobiliare per il futuro". Le dichiarazioni dell'ex presidente delineano un piano criminale di pulizia etnica, che include il trasferimento permanente dei palestinesi verso paesi terzi come Giordania ed Egitto, minacciando sanzioni contro chiunque non collabori.

La reiterazione di tale progetto da parte di Trump trova eco nel sostegno di Israele, che ha già avviato i preparativi per implementare questa visione. Con il rafforzamento delle posizioni militari intorno alla striscia e la repressione continua in Cisgiordania, Tel Aviv dimostra ancora una volta di perseguire una strategia di dominio totale, ignorando deliberatamente il diritto internazionale. Le ripetute violazioni degli accordi di tregua confermano che l’obiettivo di Israele non è la pace, ma appunto la definitiva rimozione della popolazione palestinese dai loro territori.

Le manovre diplomatiche tra Stati Uniti e Israele sembrano orientate precisamente a far saltare la fragile tregua a Gaza, proprio dopo il recente viaggio di Benjamin Netanyahu a Washington. In quell'occasione, Israele ha fatto chiaramente capire che non intende fare nessuna concessione a meno che Hamas non soddisfi condizioni che sono, di fatto, inaccettabili. Subito dopo, è emersa la notizia dell'invio di una delegazione israeliana a Doha per discutere una seconda fase dell'accordo di tregua. Tuttavia, stando a quanto riportato dalla stampa israeliana, la missione della delegazione è puramente simbolica, poiché non avrebbe mandato per negoziare nulla di concreto.

Netanyahu potrebbe piuttosto presentare nuove e pesanti condizioni a Hamas in cambio dell’adesione alla seconda fase degli accordi. Tra queste, si parla insistentemente di una possibile richiesta di esilio per i leader di Hamas, un ulteriore tentativo di annientare qualsiasi forma di resistenza legittima palestinese. La strategia del premier-criminale di guerra è chiara: mentre continua a violare sistematicamente la tregua, Israele accusa Hamas di essere l’unica parte responsabile per la sua mancata attuazione. Questa narrativa serve da pretesto per giustificare la ripresa delle ostilità e l’escalation della violenza.

I piani espressi da Donald Trump per Gaza, nelle sue dichiarazioni pubbliche recenti, si delineano come una forma di "ripulitura etnica" che violerebbe in modo palese il diritto internazionale. Il presidente degli Stati Uniti ha parlato, senza mezzi termini, di "spostare" i palestinesi da Gaza, proponendo addirittura l'idea di farli trasferire in paesi limitrofi come Giordania ed Egitto, senza la possibilità di farvi ritorno. La proposta di un trasferimento forzato di milioni di persone rappresenta evidentemente una violazione della Convenzione di Ginevra, che proibisce il trasferimento forzato di popolazioni civili e costituisce una forma di genocidio, in quanto nega l'identità, i diritti fondamentali e la dignità del popolo palestinese.

In questo contesto, la visita di martedì alla Casa Bianca del re Abdullah II di Giordania segna un momento cruciale. Trump ha ribadito l'intenzione di fare pressioni su Giordania ed Egitto per accogliere i palestinesi sfollati da Gaza, promettendo aiuti economici ingenti per ammorbidire l'opposizione dei due paesi o minacciando di congelare quelli corrisposti annualmente. Tuttavia, le condizioni poste da Trump — l'assenza di diritto di ritorno per i palestinesi una volta che saranno trasferiti in questi paesi — pongono enormi dilemmi politici e strategici per i leader arabi. Se Giordania ed Egitto rifiutano l'offerta, rischiano di perdere il supporto economico statunitense, ma se accettano, espongono i propri regimi a probabili rivolte interne. Entrambi i paesi hanno una popolazione largamente simpatizzante con la causa palestinese e le conseguenze di un accordo con gli Stati Uniti potrebbero essere devastanti per la loro stabilità interna. Intanto, l'Egitto sta cercando di trovare appoggio nella regione con la convocazione di una conferenza della Lega Araba il 27 febbraio, che, però, potrebbe risultare solo una mossa diplomatica di facciata, incapace di fermare l’avanzata del piano di Trump.

Un altro degli elementi centrali nella strategia di Trump in Medio Oriente, che si intreccia alla crisi palestinese, riguarda la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Per gli Stati Uniti, la questione è legata principalmente a motivi di controllo geopolitico e strategico. Trump, nel tentativo di consolidare una "alleanza sunnita" per contenere l'influenza iraniana nella regione, spinge per un accordo di normalizzazione tra Riyadh e Tel Aviv. Tuttavia, le difficoltà per gli Stati Uniti non sono poche. La Casa Bianca sa bene che, senza un chiaro processo che porti alla creazione di uno Stato palestinese o almeno all'avvio di negoziati credibili su questo fronte, sarà praticamente impossibile convincere il regime saudita ad accettare il passo decisivo verso una normalizzazione con Israele. Il governo di Riyadh ha infatti più volte ribadito che la precondizione per qualsiasi trattativa con Israele è la risoluzione della questione della Palestina, come ha recentemente sottolineato il principe ereditario Mohammed bin Salman. La normalizzazione con Israele, senza che ciò avvenga in un contesto di giustizia per i palestinesi, non sarebbe sostenibile internamente e comprometterebbe la legittimità del regime saudita agli occhi del mondo arabo e della sua popolazione.

Dal punto di vista strategico, però, la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele rappresenta un grande vantaggio per entrambi. Per l'Arabia Saudita, l'accordo non riguarda tanto il riconoscimento di Israele quanto l'accesso a una cooperazione in ambito di sicurezza con gli Stati Uniti e la possibilità di sviluppare un programma nucleare civile sotto la protezione americana, per consolidare la sua posizione nella regione. Per gli Stati Uniti, la normalizzazione rappresenterebbe invece un passo fondamentale nel rafforzamento della sua influenza in Medio Oriente, non solo indebolendo l'alleanza tra l'Arabia Saudita e la Russia, ma anche ostacolando la crescente cooperazione tra Riyadh e Pechino, in particolare nel settore energetico. L'ingresso dell'Arabia Saudita in un'alleanza ufficiale con Israele potrebbe minare la coesione del formato OPEC+ e favorire la capacità degli Stati Uniti di avere un maggiore controllo sulle politiche petrolifere globali, mettendo sotto pressione le relazioni economiche e strategiche tra la monarchia saudita e la Cina, che è uno dei maggiori acquirenti di petrolio saudita.

Israele sembra stia comunque preparando una nuova e ancor più violenta aggressione contro Gaza, con l'intento di implementare il piano di "pulizia" territoriale promosso da Trump. Secondo le ultime informazioni, le forze israeliane stanno rafforzando le loro posizioni ai confini con la striscia, una mossa che fa temere una nuova fase offensiva, mirata a completare la pulizia etnica della popolazione palestinese, come suggerito dalle dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano, Israel Katz. Quest’ultimo ha dato direttive alle forze di occupazione per facilitare l'evacuazione dei palestinesi da Gaza, mascherando sotto il pretesto di una “risposta umanitaria” ciò che in realtà è un crimine di guerra finalizzato a spostare la popolazione e distruggere ogni residuo di resistenza. Queste azioni non solo rivelano la natura genocida dei piani israeliani, ma mostrano anche come le violazioni del diritto internazionale siano diventate parte integrante della strategia militare israeliana.

Trump ha inoltre ulteriormente rafforzato il progetto di Netanyahu con un ultimatum a Hamas: liberare tutti gli ostaggi israeliani entro sabato a mezzogiorno, altrimenti “lasciamo che l'inferno esploda”. La minaccia di Trump è stata prontamente ratificata dal gabinetto Netanyahu martedì, ma ciò che rimane poco chiaro è quale livello di distruzione Israele sia disposto a causare per raggiungere questo obiettivo, considerando che finora né la liberazione degli ostaggi né la sconfitta definitiva di Hamas sono state ottenute, nonostante la devastazione continua e le perdite enormi.

A meno di un mese dall'insediamento di Trump alla Casa Bianca, le illusioni di chi sperava che la sua amministrazione potesse portare una nuova era di pace anche in Medio Oriente stanno dunque per essere spazzate via definitivamente. Mentre la tregua di gennaio aveva offerto un barlume di speranza, ora il piano di "seconda Nakba" per Gaza, il possibile imminente ritorno dell’aggressione israeliana e le crescenti tensioni con l'Iran minacciano di portare la regione sull'orlo di una nuova catastrofe. A tutto ciò si aggiunge il rischio concreto di destabilizzazione per paesi chiave come Egitto e Giordania, già sotto pressione per il piano Trump di trasferimento dei palestinesi, e per l'Arabia Saudita, che si trova ad affrontare complicatissimi dilemmi geopolitici.

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